M Il libro a anche Cerusico, Guercio, Goblin, Elmo, Strozzino, Silente e tutti gli altri. È così che sono noti i mercenari della Compagnia Nera, l’ultima delle Compagnie Libere. Uomini duri, pronti a tutto; fanno ciò che devono fare, incassano la paga. Fine. Non si chiedono chi sia a ingaggiarli, o perché. Se hanno scrupoli, li seppelliscono in fretta, assieme ai cadaveri delle loro vittime. Ma poi succede qualcosa. Sogni premonitori. Voci di antiche profezie. C’è una via di salvezza, forse persino per i feroci soldati della Compagnia Nera. Sempre che riescano a sopravvivere. Usciti tra 1984 e 1985, i primi tre romanzi della saga della Compagnia Nera sono un’opera di culto nel mondo anglosassone. Con la sua scrittura stratificata, materica, cruenta ma anche pervasa da una vena di umorismo nero, Glen Cook ha segnato un punto di svolta nella storia del fantasy, imboccando una di quelle strade da cui non si torna indietro. L’autore Glen Cook (New York 1944), dopo l’e-sperienza in Marina, ha lavorato alla General Motors, iniziando a scrivere negli anni Ottanta. Tra i suoi numerosi romanzi, la serie epic fantasy di culto The Chronicle of the Black Company , quella di polizieschi fantasy incentrati sul detective Garrett P.I. e la saga Dread Empire Glen Cook Libri del Nord CRONACHE DELLA COMPAGNIA NERA La Compagnia Nera Aleggiano Le Ombre La Rosa Bianca Traduzione di Stefano Cresti C RONACHE DELLA C OMPAGNIA N ERA I L IBRI DEL N ORD Questo libro è per la gente della St. Louis Science Fiction Society. Vi voglio bene. 1 IL LEGATO Prodigi e portenti non erano certo mancati, a detta di Guercio. Colpa nostra, se non avevamo saputo interpretarli correttamente. La minorazione di Guercio non intaccava in alcun modo il suo meraviglioso senno di poi. I fulmini avevano percosso la collina della Necropoli a ciel sereno. Uno strale aveva colpito la placca di bronzo che sigillava il tumulo dei forvalaka, annullando per metà l’incantesimo di contenimento. Erano piovute pietre. Le statue avevano versato sangue. I sacerdoti di diversi templi sostenevano di aver trovato vittime sacrificali private del cuore, o del fegato. Una di loro era fuggita dopo essere stata sventrata e non era stata ricatturata. Alla Caserma della Forca, dove stazionavano le Coorti Urbane, l’effigie di Teux si era girata di spalle. Per nove sere di fila, dieci avvoltoi neri avevano volato in cerchio intorno al Bastione. Poi, uno di questi aveva sloggiato l’aquila che viveva in cima alla Torre di Carta. Gli astrologi si rifiutavano di leggere il cielo, temendo per la propria vita. Un vaticinatore folle si aggirava per le strade proclamando l’imminente fine del mondo. Il Bastione non aveva soltanto perso la sua aquila, ma l’edera lungo le fortificazioni esterne aveva ceduto il passo a un rampicante che pareva nero come pece, tranne nelle giornate di sole più intenso. Del resto, succedeva tutti gli anni. A posteriori, qualsiasi evento può diventare un presagio agli occhi degli sciocchi. Avremmo dovuto prepararci meglio. Certo, disponevamo di quattro maghi di media capacità per cautelarci dalle possibili insidie del futuro – benché non fossero così sofisticati da saper divinare il futuro dalle budella di una pecora... Eppure, i migliori aruspici sono quelli che traggono le proprie profezie dai presagi del passato. Accumulano archivi fenomenali. Beryl vacillava incessantemente sull’orlo del baratro, pronta a precipitare nel caos. La regina delle Città Gioiello era decadente e impazzita, empia d’un lezzo di degenerazione e corruzione morale. Soltanto uno sciocco si sarebbe sorpreso nel vedere tutto quel che poteva strisciare per le sue strade, la notte. Avevo aperto tutte le persiane, pregando che arrivasse un filo d’aria dal porto nonostante la puzza di pesce marcio e di tutto il resto. Non si muoveva nemmeno una ragnatela. Mi asciugai la fronte e feci una smorfia nel vedere il mio primo paziente. «Hai di nuovo le piattole, Ricciolo?» Lui mi rivolse un sorriso debole. Era pallido in viso. «Stavolta è lo stomaco, Cerusico.» Ha la pelata lucida come un uovo di struzzo, Ricciolo. Per questo lo chiamiamo così. Controllai la tabella dei turni di guardia e di corvée. Non c’era niente che potesse voler scampare. «Sto male, Cerusico. Sul serio.» «Uhm...» Assunsi un comportamento più professionale, certo di aver già capito cosa fosse. Aveva la pelle madida di sudori freddi nonostante il caldo. «Hai mangiato fuori dallo spaccio, ultimamente?» Una mosca gli atterrò sul capo, impettita come un capitano di ventura. Lui non ci fece caso. «Sì. Tre o quattro volte.» «Uhm.» Preparai una disgustosa mistura lattiginosa. «Bevi questo. Tutto quanto.» Al primo sorso, Ricciolo aggrottò violentemente il viso. «Senti, Cerusico, io...» Il semplice odore di quell’intruglio mi rivoltava lo stomaco. «Bevi, amico. Sono morti due uomini, prima che m’inventassi questa roba. Poi Galera l’ha preso ed è sopravvissuto.» Si era già sparsa la voce di quella faccenda. Lui bevve. «Vuoi dire che è veleno?! Quei malnati Blu mi hanno rifilato qualcosa?» «Rilassati. Andrà tutto bene. Sì. A quanto pare è così.» Avevo dovuto aprire Vairone e Selvaggio Bruce per sapere la verità. Era un veleno insidioso. «Vieni a metterti qui, sulla brandina, a prendere un po’ d’aria... sempre che si decida a soffiare, quella stronza. E vedi di stare buono. Lascia agire l’intruglio.» Lo aiutai a sdraiarsi. «Dimmi cos’hai mangiato là fuori.» Presi un pennino e un foglio di registro appuntato su una cartellina. Avevo fatto lo stesso con Galera, e con Selvaggio Bruce prima che morisse; avevo anche fatto ricostruire tutti i movimenti di Vairone dal suo sergente di plotone. Ero sicuro che il veleno provenisse da una delle numerose bettole dei dintorni, di quelle frequentate dalla guarnigione del Bastione. Ricciolo indicò un nome segnato sulla tabella. «Eccoli! Li abbiamo beccati, quei bastardi.» «Chi è stato?» Era già pronto a sistemarli da solo. «Tu riposati. Vado a parlare con il Capitano.» Gli diedi una pacca sulla spalla e feci capolino nella sala accanto: Ricciolo era l’unico malato, quella mattina. Imboccai la via più lunga, passando sulle Mura Trejane che affacciavano sul porto di Beryl. Giunto a metà strada mi fermai e volsi lo sguardo a nord, oltre il molo, oltre il faro e l’Isola Fortificata, verso il Mar dei Tormenti. Le sue sudicie acque grigiastre erano disseminate di una moltitudine di vele variopinte, sambuchi che solcavano la ragnatela di rotte costiere che collegava le Città Gioiello. L’aria, più in alto, era immobile, pesante e caliginosa. Non si discerneva l’orizzonte. A pelo d’acqua, però, qualcosa si muoveva: c’era sempre una brezza intorno all’Isola, benché sembrasse evitare la riva come per paura di farsi contagiare dalla lebbra. Più vicino, i gabbiani volteggiavano torvi e indolenti – come sarebbero stati quasi tutti gli uomini in una giornata del genere. Un’altra estate al servizio del Sindaco di Beryl, tra sudore e sudiciume, impegnati a proteggerlo dai rivali politici e dalle proprie truppe indisciplinate, senza neanche ricevere un «grazie». Un’altra estate passata a farci il mazzo per poi vederci ricompensare come Ricciolo, magari. La paga era buona ma non gratificava il morale. Se avessero visto quanto eravamo scesi in basso, i confratelli che ci avevano preceduto si sarebbero vergognati di noi. Beryl sarà pure irrancidita dallo squallore ma è una città antica e intrigante. La sua storia è un pozzo senza fondo, colmo d’acqua stagnante. Io m’intrattenevo nel tentativo di scandagliarne le profondità più oscure, cercando di vagliare i fatti dalle fantasie, dalle leggende e dal mito. Non è cosa semplice, dal momento che i primi storici della città compilavano i loro resoconti avendo sempre cura di adulare i potenti di turno. Il periodo più interessante, a mio avviso, è il regno antico, le cui cronache sono peraltro molto lacunose. Fu allora, sotto il regno di Niam, che giunsero i forvalaka: sgominati dopo un decennio di terrore, furono poi confinati in un oscuro avello in cima alla Necropoli. Un’eco di quel lontano terrore persiste ancora nel folklore locale e tra le ammonizioni materne ai pargoli indisciplinati. Nessuno ricorda più cosa fossero i forvalaka, ormai. Ripresi a camminare lungo le mura, disperando di potermi liberare dalla morsa del caldo. Le nostre sentinelle, rintanate nell’ombra delle loro garitte, portavano un panno attorno al collo. Fui sorpreso da un refolo d’aria. Mi voltai verso il porto. Una nave compariva in lontananza, costeggiando l’Isola: un imponente bastimento che torreggiava su sambuchi e feluche. Nel bel mezzo della sua vela nera, gonfiata dal vento, campeggiava un teschio argenteo. Gli occhi del teschio sfavillavano rosseggianti. Dietro i suoi denti rotti baluginavano le fiamme, ed era circondato da una fascia d’argento scintillante. «E quella che diavolo è?» chiese una sentinella. «Non lo so, Sbiancato.» Le dimensioni di quella nave m’impressionavano più di quanto non facesse la sua vela pacchiana. Anche i quattro maghi minori che avevamo nella Compagnia avrebbero saputo replicare una pagliacciata del genere. Ma non avevo mai visto un galeone con cinque file di remi. Mi rammentai quel che ero venuto a fare. Bussai alla porta del Capitano. Lui non rispose. Mi permisi di entrare lo stesso e lo trovai che russava sulla sua grossa sedia di legno. «Ehi!» gridai. «Al fuoco! Rivoltosi giù al Gemito! Danzante alla Porta dell’Alba!» Danzante era un generale dei tempi andati che aveva quasi raso al suolo Beryl. La gente ancora trema, a sentirne il nome. Il Capitano non si scompose. Non socchiuse nemmeno le palpebre, né sorrise. «Sei un presuntuoso, Cerusico. Quando imparerai a far uso dei canali appropriati?» Far uso del canale appropriato significava disturbare prima il Tenente: mai interrompere il pisolino del Capitano... a meno che i Blu non stessero prendendo d’assedio il Bastione, naturalmente. Gli dissi di Ricciolo e del mio registro dei sospetti. Lui tirò giù i piedi dalla scrivania. «Sembra un lavoretto fatto apposta per Pietà.» La sua voce si era fatta dura. La Compagnia Nera non tollera nessun atto di aggressione contro i propri uomini. Pietà era il nostro capoplotone più brutale. Pensava che gli sarebbero bastati una dozzina di uomini, per quel lavoro, ma lasciò che io e Silente li accompagnassimo. Potevo sempre servire a rattoppare i feriti. E Silente sarebbe tornato utile se i Blu avessero provato a giocare sporco. Silente ci fece ritardare la spedizione di mezza giornata per andare a farsi un giro tra i boschi. «Che diavolo hai intenzione di fare?» gli chiesi quando tornò portando in spalla un sacco tutto logoro. Lui si limitò a sogghignare. Silente, di nome e di fatto. Il posto si chiamava Taverna del Molo. Un posticino piacevole. Ci avevo passato più di una serata. Pietà assegnò tre uomini alla porta sul retro e un paio a ognuna delle due finestre. Ne piazzò altri due sul tetto. Tutti gli edifici di Beryl hanno una botola sul tetto. La gente ha l’abitudine di dormirci sopra, durante l’estate. Poi ci precedette oltre la soglia della Taverna del Molo. Pietà era un tipo piuttosto basso e spavaldo, molto amante della teatralità. Il suo ingresso avrebbe potuto essere accompagnato da una fanfara. La folla di avventori rimase di stucco, fissando i nostri scudi, le lame snudate e quel poco che traspariva delle nostre smorfie truci attraverso le celate. «Verus!» berciò Pietà. «Porta il culo qui fuori!» Il capofamiglia dei gestori della taverna uscì allo scoperto. Si mosse cauto verso di noi come un cane rognoso che si aspettasse un pestone. Tra gli avventori si levò un brusio. «Silenzio!» tuonò Pietà. Per quanto tarchiato, sapeva come cavarsi dal corpo un ruggito possente. «Come possiamo esservi d’aiuto, onorabili signori?» chiese il vecchio. «Puoi far saltare fuori i tuoi figli e i tuoi nipoti, Blu.» Ci fu un cigolio di sedie. Uno dei nostri calò rumorosamente la spada su un tavolo. «Comodi, comodi» disse Pietà. «Godetevi il pranzo, tranquilli. Tra un’oretta sarete liberi.» Il vecchio cominciò a tremare. «Non capisco, signore. Cos’abbiamo fatto?» Pietà sogghignò biecamente. «Sei bravo a fare lo gnorri... Omicidio, Verus. Due capi d’imputazione per avvelenamento. E altri due per tentato avvelenamento. I magistrati hanno decretato che gli schiavi siano puniti.» Se la stava godendo, lui. Pietà non era tra i miei preferiti. Non aveva mai smesso di essere quel ragazzino che da piccolo strappava le ali alle mosche. La punizione, per uno schiavo, significava essere lasciato alla mercé degli uccelli saprofagi dopo la crocifissione pubblica. A Beryl, soltanto i criminali vengono seppelliti senza cremazione. Sempre che li seppelliscano. Dalla cucina giunse trambusto: qualcuno stava cercando di fuggire dalla porta sul retro ma i nostri uomini avevano avuto qualcosa da ridire. La sala insorse. Un’ondata di gente armata di pugnali ci si riversò addosso. Ci costrinsero a indietreggiare fino alla porta. Quelli che non erano colpevoli, ovviamente, temevano di essere condannati insieme a quelli che lo erano. La giustizia di Beryl è rapida, spietata e brutale, ed è raro che conceda a un imputato la possibilità di esprimersi a sua discolpa. Un pugnale oltrepassò uno scudo. Uno dei nostri cadde a terra. Non sono un gran combattente ma riempii il vuoto che aveva lasciato. Pietà mi schernì ma non riuscii a cogliere le sue parole. «Ti sei giocato l’eternità» ribattei comunque. «Ti taglio fuori dagli Annali.» «Stronzate. Non tralasci mai niente, tu.» Una dozzina di cittadini era riversa a terra. Il sangue si addensava nelle crepe del pavimento. Fuori si era radunato un capannello di spettatori. Ben presto, qualche avventuriero ci avrebbe aggredito alle spalle. Un pugnale graffiò Pietà, che perse la pazienza. «Silente!» Silente era già al lavoro, ma era Silente. Il che significava niente rumori e pochissimo movimento o furia. I clienti della taverna cominciarono a schiaffeggiarsi il viso e ad artigliare l’aria, maledicendoci. Saltellavano e si dimenavano, cercando di afferrarsi le schiene e le terga, uggiolando e ululando pateticamente. Più d’uno crollò a terra. «Che diavolo hai fatto?» chiesi a Silente. Lui sogghignò, snudando i denti affilati. Mi passò una zampa scura sugli occhi e vidi la taverna da una prospettiva lievemente alterata. Il contenuto del sacco che si era portato appresso da fuori città si rivelò essere uno di quei nidi di vespe in cui, se ti diceva male, rischiavi di imbatterti tra i boschi a sud di Beryl. Ad abitare il nido erano veri e propri mostri, simili a calabroni, che i contadini del posto chiamavano vespe impudenti. Avevano un caratteraccio come non se ne trovavano eguali in natura. Sottomisero i clienti che affollavano la taverna in men che non si dica, senza però infastidire i nostri. «Bel lavoro, Silente» disse Pietà, dopo aver sfogato il malumore su più d’uno sfortunato avventore. Poi fece radunare i sopravvissuti in strada. Io mi presi cura dei nostri confratelli feriti, mentre i soldati illesi davano il colpo di grazia ai feriti. Così facevamo risparmiare al Sindaco i soldi del processo e del boia, diceva Pietà. Silente osservava la scena continuando a ghignare. Anche lui non è certo un tipino accomodante, per quanto sia raro vederlo partecipare in prima persona all’azione. Facemmo più prigionieri del previsto. «Ce n’è un mucchio.» Gli occhi di Pietà sfavillavano. «Grazie, Silente.» La fila si dipanava per un isolato intero. La sorte è una puttana volubile. Ci aveva condotto alla Taverna del Molo in un momento cruciale. Rovistando in giro, il nostro stregone aveva sgamato un ricco premio: una folla di gente rintanata in un nascondiglio sotto le cantine. Tra gli altri, c’erano alcuni dei Blu più conosciuti. Pietà si era messo a blaterare, chiedendosi ad alta voce quanto sarebbe stato giusto pagare il nostro informatore. Informatore che, ovviamente, non esisteva. E quel suo sproloquio serviva solo a evitare che i nostri mansueti stregoni diventassero bersagli primari. I nostri nemici avrebbero girato in tondo alla ricerca di spie inesistenti. «Portateli via» ordinò Pietà. Occhieggiò la folla ostile, continuando a ghignare. «Credete che proveranno a fare scherzi?» Non ci provarono. Quella sua estrema baldanza inibiva efficacemente gli animi più audaci. Ci avviammo attraverso un dedalo di strade vecchie quanto il mondo, con i prigionieri che trascinavano svogliatamente i piedi. Io mi guardavo intorno, meravigliato. I miei compagni sono perlopiù indifferenti alle cose del passato; io però non riuscivo a impedirmi di provare meraviglia – e qualche volta perfino un certo timore reverenziale – di fronte alle insondabili profondità della storia di Beryl. Pietà ordinò una sosta imprevista. Eravamo giunti al Viale dei Sindaci, che si dipana dalla Dogana, nella parte nord della città, verso il cancello principale del Bastione. Lungo il viale si stava svolgendo una lunga processione. Benché fossimo giunti per primi all’incrocio, Pietà aveva ceduto il diritto di passaggio. La colonna contava un centinaio di uomini armati. Sembravano essere più tosti di chiunque altro, a Beryl, a parte noi. Alla testa del manipolo cavalcava una figura tetra in sella al più grosso stallone nero che avessi mai visto. Il cavaliere era minuto, dotato di una snellezza muliebre e avvolto in abiti di pelle consunta. Indossava un morione nero che gli celava completamente il capo. Le mani erano nascoste da un paio di guanti neri. Pareva disarmato. «Che mi venga un colpo» sussurrò Pietà. Io ero turbato. Quel cavaliere mi dava i brividi. Qualcosa di primitivo in me avrebbe voluto fuggire. Ma la curiosità era un veleno più forte. Chi era? Che fosse sbarcato da quella strana nave ancorata giù al porto? E perché era lì? Gli occhi invisibili del cavaliere fecero passare il loro sguardo indifferente su di noi come se fossimo stati un gregge di pecore. Poi tornarono indietro di scatto, fissandosi su Silente. Silente sostenne quello sguardo senza mostrare alcun timore, eppure appariva come diminuito. La colonna ci oltrepassò, dura, disciplinata. Scosso, Pietà fece rimettere in movimento il nostro gruppo. Entrammo nel Bastione seguendo dappresso quegli sconosciuti. Avevamo arrestato la maggior parte dei capi più moderati dei Blu. Quando la voce della nostra incursione si diffuse in città, gli animi più fumantini decisero di alzare la cresta. E innescarono una fiammata mostruosa. Un clima sempre irritante può incidere profondamente sul raziocinio degli uomini. E la folla di Beryl sapeva essere feroce. Le rivolte s’innescavano quasi senza bisogno di provocazioni. Quando le cose andavano male, i morti si contavano a migliaia. Quella fu una delle volte peggiori. L’esercito era metà del problema. Una sfilza di Sindaci senza polso e di breve mandato aveva permesso che la disciplina andasse a farsi benedire. Le truppe regolari erano ormai fuori controllo. In linea generale, però, tendevano ad agire contro i rivoltosi; consideravano la repressione di una rivolta come una licenza di saccheggio. Accadde il peggio. Diverse coorti appartenenti alla Caserma della Forca fecero richiesta di un premio speciale prima di rispondere alla direttiva di ripristinare l’ordine. Il Sindaco si rifiutò di pagare. E le coorti si ammutinarono. Il plotone di Pietà organizzò in fretta e furia un baluardo difensivo in prossimità della Porta dei Rifiuti e tenne a bada tutte e tre le coorti. La maggior parte dei nostri rimase uccisa ma nessuno si diede alla fuga. Lo stesso Pietà perse un occhio, un dito e fu ferito alla spalla e all’anca; quando giunsero i rinforzi, aveva già più di cento fori nel suo scudo. E quando lo portarono da me era ormai più di là che di qua. Alla fine gli ammutinati preferirono disperdersi piuttosto che affrontare il resto della Compagnia Nera. Quelle furono le peggiori sommosse di cui abbia memoria. Perdemmo quasi cento fratelli nel tentativo di contenerle. E potevamo a malapena permetterci di perderne uno. Giù al Gemito le strade erano lastricate di cadaveri. I ratti ingrassavano. Nubi di avvoltoi e corvi migravano dalle campagne fino in città. Il Capitano ordinò alla Compagnia di trincerarsi nel Bastione. «Lasciamo che la cosa faccia il suo corso» disse. «Abbiamo fatto abbastanza.» Il suo umore era più che amareggiato; disgustato. «Il nostro contratto non contempla il suicidio.» Qualcuno scherzò sul fatto che, magari, potevamo inciampare sulle nostre spade. «Sembrerebbe essere proprio quello che si aspetta il Sindaco.» Beryl ci aveva fiaccato lo spirito ma nessuno era più disilluso del Capitano stesso: si attribuiva la colpa delle perdite subite. Tentò addirittura di dare le dimissioni. La popolazione insorta si era abbandonata a un testardo, rancoroso e disarticolato sforzo a sostegno del caos, interferendo con qualsiasi tentativo di spegnere incendi o impedire saccheggi ma limitandosi, per il resto, a vagare senza meta per la città. Le Coorti Ribelli, le cui fila si erano ingrossate di disertori provenienti da altre unità, avevano sistematizzato omicidi e saccheggi. La terza notte ero di guardia sulle Mura Trejane, sotto un tappeto di stelle che parevano denigrare la stolta sentinella che si era offerta volontaria. La città era stranamente silenziosa. Questo avrebbe potuto preoccuparmi, se non fossi stato così stanco. Riuscivo a malapena a restare sveglio. Tamburino venne da me. «Che ci fai qui fuori, Cerusico?» «Sostituzione.» «Sembri un morto che cammina. Vatti a riposare.» «Anche tu non sembri proprio un fiore, mezza calzetta.» Lui fece spallucce. «Come sta Pietà?» «Non è ancora uscito dal guado.» In realtà nutrivo ben poche speranze, per lui. Indicai un punto. «Sai niente della situazione là fuori?» Un grido isolato riecheggiò in lontananza. C’era un elemento, in quella voce, che pareva distinguerla dalle altre urla più recenti. Quelle erano state cariche di dolore, rabbia e spavento. Questa era intrisa di qualcosa di più oscuro. Tamburino tentennò in quel modo che avevano di fare lui e suo fratello Guercio. Se c’è qualcosa che non sai, per loro potrebbe sempre essere un segreto che vale la pena conservare. Ah, questi maghi! «Gira voce che gli insorti abbiano infranto i sigilli sulla tomba dei forvalaka mentre saccheggiavano la Necropoli.» «Come?! Quegli affari sono usciti?» «Il Sindaco crede di sì. Il Capitano non sembra prenderlo sul serio.» Neanch’io, anche se Tamburino pareva preoccupato. «Sembravano tosti. Quelli che abbiamo visto l’altro giorno, dico.» «Avremmo dovuto reclutarli» disse lui, con una traccia di rammarico. Lui e Guercio erano nella Compagnia da parecchio tempo. Avevano assistito a gran parte del suo declino. «Secondo te che ci facevano, qui?» Si strinse nelle spalle. «Vatti a riposare, Cerusico. Non strafare. Tanto, alla fine, non fa differenza.» Si allontanò con passo distratto, perso nella landa selvaggia dei suoi pensieri. Io lo guardai, interdetto. Alla faccia dell’entusiasmo... Tornai a prestare attenzione ai fuochi, alle luci e a quella inquietante assenza di confusione. I miei occhi continuavano a incrociarsi, mi si annebbiava la vista. Tamburino aveva ragione. Avevo bisogno di dormire. Dall’oscurità giunse un’altra di quelle strane grida disperate. Stavolta era più vicina. «Sveglia, Cerusico.» Il Tenente non fu delicato. «Il Capitano ti vuole nella mensa degli ufficiali.» Io mugugnai qualcosa. Imprecai. Minacciai di fare un casino bestiale. Lui sogghignò, mi pizzicò per il nervo del gomito e mi mandò a ruzzolare per terra. «Va bene, va bene, mi alzo» brontolai io, cercando tentoni gli stivali. «Di che si tratta?» Il Tenente era già andato. «Dici che Pietà se la caverà, Cerusico?» mi chiese il Capitano. «Non credo, anche se ho assistito a ben altri miracoli.» Gli ufficiali e i sergenti erano tutti presenti. «Allora, volevi sapere cosa sta succedendo?» disse il Capitano. «Il cavaliere dell’altro giorno è un emissario che proviene da oltremare. È venuto a proporre un’alleanza. Le risorse militari del Nord in cambio del sostegno della flotta di Beryl. Mi è sembrato piuttosto ragionevole. Il Sindaco, però, sta facendo il cocciuto. È ancora sconvolto per la caduta di Opal. Gli ho consigliato di dimostrare maggior flessibilità. Se quei nordici sono ostili, allora la scelta di un’alleanza potrebbe essere il minore di molti altri mali. Meglio alleati che tributari. Il nostro problema è: da che parte stare, se l’emissario insiste?» «Che fare se il Sindaco ci chiede di combattere contro quei nordici? Ci rifiutiamo?» incalzò Dolce. «Forse. Combattere contro uno stregone potrebbe significare la nostra rovina.» Slam! La porta della mensa si spalancò di colpo. Un ometto scuro e nodoso, preceduto da un ingombrante naso aquilino, entrò bruscamente nella sala. Il Capitano balzò in piedi e fece schioccare i talloni. «Sindaco.» Il nuovo arrivato picchiò entrambi i pugni sul tavolo. «Avete dato ordine ai vostri uomini di ritirarsi nel Bastione! Non vi pago per nascondervi come cani bastonati.» «Ma non ci pagate nemmeno per diventare martiri» replicò il Capitano con il tono di chi deve ragionare con uno sciocco. «Siamo guardie del corpo, non vigilanti. Mantenere l’ordine è compito delle Coorti Urbane.» Il Sindaco era esausto, stravolto, spaventato, aveva i nervi a pezzi. Come tutti, del resto. «Siate ragionevole» suggerì il Capitano. «Beryl ha superato il punto di non ritorno. Il caos regna per le strade. Qualsiasi tentativo di ripristinare l’ordine sarebbe futile. La cura, ormai, è il male stesso.» Quelle parole mi piacquero. Avevo iniziato a detestare Beryl. Il Sindaco sembrò rattrappirsi. «Ci sono ancora i forvalaka. E quell’avvoltoio del Nord, in attesa al largo dell’Isola.» Tamburino si risvegliò dal torpore. «Come, come? Al largo dell’Isola?» «Aspetta che vada lì a supplicarlo.» «Interessante.» Il piccolo mago ripiombò nel dormiveglia. Il Capitano e il Sindaco ripresero a battibeccare sui termini del nostro incarico. Io esibii una copia del contratto. Il Sindaco cercò di stiracchiare le clausole con una serie di «Sì, però...». Era chiaro che avrebbe voluto farci combattere se l’emissario avesse cominciato a fare pressioni. Elmo si mise a russare. Il Capitano ci congedò, poi si rimise a bisticciare con il nostro datore di lavoro. Immagino che ci sia anche chi considera sette ore come una notte di sonno. Non strozzai Tamburino quando mi svegliò. Però mugugnai e protestai finché non minacciò di trasformarmi in un asino che ragliava alla Porta dell’Alba. Soltanto allora, dopo essermi vestito e aver raggiunto un’altra dozzina di uomini, mi resi conto che non avevo idea di cosa stesse accadendo. «Andiamo a controllare una tomba» disse Tamburino. «Eh?» Certe mattine sono proprio lento. «Saliamo alla Necropoli per dare un’occhiata a quel tumulo dei forvalaka.» «Aspetta un momento...» «Paura, eh? Ho sempre pensato che fossi un cacasotto, Cerusico.» «Di che stai parlando?» «Non ti preoccupare. Ci saranno tre maghi di prima classe che non avranno niente di meglio da fare che pararti il culo. Sarebbe venuto anche Guercio ma il Capitano vuole che resti da queste parti.» «Quello che voglio sapere è: perché?» «Per scoprire se i vampiri ci sono per davvero. Potrebbe essere una montatura di quella nave spia laggiù.» «Un bel trucchetto. Forse avremmo dovuto pensarci noi.» La minaccia dei forvalaka era riuscita laddove la repressione armata aveva fallito: placare le rivolte. Tamburino annuì. Fece scivolare le dita sul tamburello da cui traeva il nome. Cambiai argomento. Quando si trattava di ammettere una mancanza, Tamburino era perfino peggio del fratello. La città era immobile e silenziosa come un vecchio campo di battaglia. E come un campo di battaglia era piena di odori nauseabondi, mosche, bestie saprofaghe e morti. Gli unici rumori erano lo scalpiccio dei nostri stivali e l’uggiolio solitario di un cane a lutto che montava sconsolato la guardia al cadavere del suo padrone. «Il prezzo dell’ordine» mormorai io. Cercai di far sloggiare l’animale ma quello non volle muoversi da lì. «Il costo del caos» ribatté Tamburino. Bum sul tamburo. «Non è proprio la stessa cosa, Cerusico.» La collina della Necropoli è più alta dello sperone su cui si arrocca il Bastione. Dal Recinto Superiore, dove si trovano i mausolei dei notabili, riuscivo a intravedere la nave del Nord. «Se ne stanno lì ad aspettare» commentò Tamburino. «Come diceva il Sindaco.» «Chissà perché non attaccano e basta? Chi potrebbe fermarli?» Tamburino fece spallucce. Nessun altro rispose. Raggiungemmo l’antica tomba. Il suo aspetto rispecchiava l’aura di cui l’avevano ammantata storie popolari e leggende. Era molto, molto antica, inequivocabilmente colpita da un fulmine, e scalfita da segni di attrezzi. Uno spesso portale di legno di quercia era andato in pezzi. Schegge e frammenti giacevano sparpagliati per una dozzina di iarde tutto intorno. Goblin, Tamburino e Silente fecero capannello per consultarsi. Qualcuno celiò sul fatto che in tre, forse, facevano un cervello intero. Goblin e Silente si misero in posizione ai due lati della porta, restando qualche passo indietro. Tamburino ci si mise davanti. Si spostò, irrequieto come un toro pronto alla carica, trovò il punto giusto e si accovacciò a terra con le braccia alzate in modo strano, come la parodia di un maestro di arti marziali. «Che ne dite di aprire la porta, scemi?» ringhiò. «Idioti. Mi sono portato appresso un branco di idioti...» Bam bam sul tamburo. «Se ne stanno lì a scaccolarsi senza far niente.» Un paio dei nostri afferrarono le ante distrutte e tirarono. Erano troppo ritorte e non cedettero di molto. Tamburino percosse il tamburo, lanciò un grido belluino e saltò all’interno. Goblin balzò verso il portale dopo di lui. Silente li seguì dappresso, rapido e sinuoso. Una volta all’interno, Tamburino emise uno squittio da ratto e cominciò a starnutire. Uscì fuori barcollando, con le lacrime agli occhi e strofinandosi il naso con il palmo delle mani. Sembrava uno con un brutto raffreddore, quando disse: «Non era un trucchetto». La sua pelle nera era diventata grigia. «Che vuoi dire?» gli chiesi. Puntò un pollice verso la tomba dove ora erano entrati Goblin e Silente. Anche loro cominciarono a starnutire. Io mi avvicinai alla soglia e sbirciai dentro. Non vedevo un accidente. Soltanto i granelli di polvere che danzavano nella luce del sole accanto a me. Poi decisi di entrare. I miei occhi si adattarono all’oscurità. C’erano ossa ovunque. Ossa ammucchiate, ossa affastellate, ossa sistemate ordinatamente da qualcosa di folle. Erano ossa strane, simili a quelle degli uomini, ma al mio occhio da chirurgo avevano strane proporzioni. In origine dovevano esserci stati cinquanta corpi, lì dentro. All’epoca li avevano stipati ben bene. Dovevano essere sicuramente forvalaka, allora, perché Beryl seppellisce i suoi nemici senza cremarli. C’erano anche cadaveri freschi. Contai sette soldati morti prima di mettermi a starnutire. Indossavano le insegne di una delle coorti in rivolta. Trascinai fuori un corpo, lo mollai a terra, barcollai per qualche passo e vomitai rumorosamente. Quando ripresi il controllo, mi voltai per esaminare il mio bottino. Gli altri se ne stavano intorno a me, verdognoli in viso. «Questa non è opera di uno spettro» disse Goblin. Tamburino annuì. Era più scosso di chiunque altro. “Più scosso di quanto quello spettacolo potesse giustificare” pensai.