È sopravvissuto a due guerre mondiali, sette papi, la monarchia, il fascismo, la Prima Repubblica e la Seconda. E a sei processi per mafia e omicidio. Giulio Andreotti è stato un esemplare unico del potere in Italia per longevità, sopravvivenza agli scandali, dimestichezza con gli apparati dello Stato e del Vaticano, consuetudine con le classi dirigenti mondiali del passato. È stato unico perfino nell’aspetto fisico, che ha nutrito generazioni di vignettisti. A cento anni dalla nascita, il 14 gennaio del 1919, ripercorrere la sua vita e la sua epoca significa fare i conti con la distanza siderale tra la sua Italia e quella di oggi. Dopo essere stato incombente per mezzo secolo come uomo di governo e come enigma dell’Italia democristiana, Andreotti non c’è più. E non solo perché è morto, il 6 maggio del 2013. Non esistono più la sua politica, la sua cultura, il suo Vaticano. Rimane solo l’eco lontana e controversa del «processo del secolo», che doveva chiarire le sue responsabilità e che invece si è concluso nel modo più andreottiano: con una verità sfuggente. Nel suo libro, ampiamente rivisto e aggiornato per questa nuova edizione, Massimo Franco racconta e analizza Andreotti e il suo mondo: gli alleati, i nemici, il suo alone intatto di mistero, ma anche la famiglia invisibile per decenni, e sorprendente nella sua stranissima normalità. Attraverso la silhouette curva del «Divo Giulio», aiuta a capire che cosa siamo stati e non siamo più. In un’Italia che cambiava o fingeva di cambiare, Andreotti rimase sempre se stesso: nel bene e nel male. Emblema e garante dello status quo nell’era della guerra fredda, ha rappresentato l’«uomo del Purgatorio» per antonomasia, in una nazione in bilico tra Paradiso occidentale e Inferno comunista. Ha permesso a un’Italia di specchiarsi per mezzo secolo in lui, di sentirsi migliore, o forse solo di autoassolversi. Le ha fornito la bussola: un pessimismo di fondo sulla natura umana, alleviato dall’ironia. MASSIMO FRANCO, inviato e notista politico del «Corriere della Sera», ha lavorato ad «Avvenire», «Il Giorno», «Panorama». È membro dell’International Institute for Strategic Studies (IISS) di Londra. Tra i suoi libri più recenti, Il Vaticano secondo Francesco (Mondadori 2014, edito in Argentina da Aguilar-Penguin Random House), Imperi Paralleli, Vaticano e Stati Uniti, Due secoli di alleanza e conflitto (Mondadori 2005, il Saggiatore 2015, edito negli Usa da Doubleday-Penguin Random House), L’assedio: come l’immigrazione sta cambiando il volto dell’Europa e la nostra vita quotidiana (Mondadori 2016, pubblicato in Spagna da Editorial Popular), e Sono un ottimista globale, Conversazione con Bill Gates (Corriere della Sera, Il Saggiatore 2017). Collabora a Otto e mezzo e a DiMartedì su La7. Progetto grafico: Alice Iuri / theWorldofDOT https://marapcana.me www.solferinolibri.it https://marapcana.me Saggi MASSIMO FRANCO C’era una volta Andreotti Ritratto di un uomo, di un’epoca e di un Paese www.solferinolibri.it Questa è l’edizione riveduta e ampliata di Andreotti. La vita di un uomo politico, la storia di un’epoca © 2019 RCS MediaGroup S.p.A., Milano Proprietà letteraria riservata ISBN 978-88-282-0152-6 Prima edizione: gennaio 2019 C’era una volta Andreotti A mia moglie Ilaria Che farei se potessi compiere un gesto di assoluta potenza? Sicuramente qualche sciocchezza. GIULIO ANDREOTTI Introduzione «C’era una volta Andreotti» è un titolo che può suonare ambiguo. Somiglia a quello di una favola a lieto fine, o di un racconto con un epilogo drammatico. In realtà, vuole essere solo la biografia di una persona e di un’Italia che ormai appartengono al passato. È il certificato che consegna questo politico alla storia. Il libro lo studia e lo analizza, «dalla culla alla tomba», per archiviarne l’attualità e non per riproporla. Parla del suo mondo e del suo potere come realtà sepolte, delle quali a volte si cercano le tracce, dando tuttavia l’impressione che si faccia in modo artificioso, forzato. In fondo, il saggio ha accompagnato e seguito, nelle sue molte edizioni e nei suoi aggiornamenti, l’evoluzione e la trasformazione di un’Italia e del suo uomo-simbolo. E adesso lo saluta forse definitivamente, con i suoi frammenti di mistero ancora intatti, e con le pillole di una saggezza impregnata di cinismo e di pessimismo, che oggi servono non a descrivere una realtà attuale ma il suo superamento, perfino la sua disintegrazione. Parlare di Giulio Andreotti significa proporre la biografia di un «dinosauro», comparso sulla terra italiana un secolo fa, il 14 gennaio 1919, e scomparso ufficialmente il 6 maggio 2013: anche se politicamente le versioni sono più contrastanti. Per questo va sgombrato subito il campo da un possibile equivoco. A cent’anni dalla sua nascita, farsi suggestionare dalla vulgata secondo la quale siamo ancora immersi in un «secolo andreottiano» significherebbe perpetuare un mito consunto. Mentre un’Italia lacerata e sfiduciata vive una delle sue crisi più traumatiche, Andreotti è davvero un personaggio del passato, nonostante la pervicacia dei suoi accusatori nella magistratura e nella politica, e la difesa strenua che della sua memoria «dannata» fanno i figli e alcuni superstiti della Prima Repubblica. Sembra che entrambi siano costretti, al di là della loro volontà, a trascinare e perpetuare un conflitto sul suo lascito, destinato a non produrre molto di più di polemiche e analisi inevitabilmente parziali; e a sublimare Andreotti come emblema di un’Italia inguaribilmente divisa: proprio lui che, da cattolico romano e da democristiano, aborriva qualunque contrapposizione, almeno visibile. In realtà, il «secolo andreottiano» era finito prima ancora che lui morisse; forse, perfino prima che si celebrassero i processi a suo carico. Politicamente, si era chiuso con la fine della guerra fredda. Quello spartiacque aveva segnato l’archiviazione dello status quo geopolitico di cui Andreotti era stato cultore, custode e garante per quasi mezzo secolo. Quanto è successo dopo, nel mondo e a lui personalmente, somiglia a un tentativo impossibile di incasellare in una gabbia di certezze la guerra fredda e quel simbolo unico, anche fisicamente; di fissarlo in categorie morali e penali, prima che politiche, col risultato di ridurne e banalizzarne la complessità. Operazione velleitaria. A tratti si ha quasi l’impressione che l’Italia, o almeno un’Italia, abbia sentito la necessità di «processare» Andreotti e la Dc per spiegare a se stessa quanto era accaduto nei decenni precedenti; per giustificare la sua impotenza o l’incapacità a capire il nostro popolo; insomma per trovare «una verità» consolatoria, più che per arrivare alla verità. Quanto agli italiani e alle italiane nate negli ultimi trent’anni, probabilmente non sanno bene nemmeno chi sia stato: se non altro per ragioni generazionali. È un Paese cresciuto nell’era di Silvio Berlusconi, impregnato dei suoi valori o, se si vuole disvalori; e approdato, anzi forse portato inconsciamente per mano, a un’idea della politica, delle sue dinamiche, della sua comunicazione, lontana anni luce da quella andreottiana. Sostenere che almeno in alcuni casi si ripetono i riti del Divo Giulio, o di Belzebù, nomignoli che ben riflettono la polarizzazione sul suo personaggio, è un abbaglio. Andreotti non ha eredi, o anche soltanto imitatori, per fortuna o per disgrazia. Mantiene una sua unicità non solo perché già aveva una silhouette atipica ai suoi tempi, ma soprattutto perché è cambiata l’Italia ed è mutato il contesto internazionale. Si è trasformato in profondità perfino il «suo» Vaticano. E quel professionismo della politica che già gli sembrava spudoratamente violato dall’epifania del «dilettante» Silvio Berlusconi nel 1994, è stato sostituito da un dilettantismo trasversale, rivendicato quasi con orgoglio. Evidentemente è la conseguenza di una sequela di errori e di una deriva storica e culturale che travalica i confini italiani e farebbe inorridire Andreotti, sebbene qualche responsabilità, lui e gli ultimi governi della cosiddetta Prima Repubblica, debbano portarla. Il politico di professione che confessava di avercela con Berlusconi per l’invenzione della serie televisiva il Grande Fratello, ora dovrebbe fare i conti col fatto altamente simbolico che il portavoce del presidente del Consiglio nominato all’inizio di giugno del 2018, Giuseppe Conte, sia un ex partecipante a quella trasmissione, Rocco Casalino. Andreotti ha, semmai, improbabili esegeti, che parlano della Dc e della sua epoca, con il manicheismo approssimativo distribuito a piene mani in questi anni di semplificazioni, propaganda, incanaglimento. È come se di lui si potesse dare il giudizio semplicistico costruito dalla Rete, figlio della vulgata popolare e delle certezze autoreferenziali dei siti Internet. Solo quando tutti i protagonisti scompariranno, e gli archivi andreottiani saranno spulciati fino in fondo dagli storici, forse sarà possibile provare a costruire un profilo meno viziato dalla polemica politica. Ma raccontare l’habitat in cui è cresciuto il dinosauro Andreotti aiuta a addentrarsi in un Jurassic Park dove in realtà si ripercorrono le biografie di un’Italia, di una Chiesa cattolica, di una criminalità, di una magistratura, di un popolo di elettori, di un Occidente. E di una democrazia bloccata ma anche stabilizzata dalla guerra fredda, di cui Andreotti è stato testimone privilegiato, sacerdote e perno assoluto per oltre mezzo secolo. Anche se quando si parla di animali preistorici bisogna sempre ricordare lo splendido racconto breve di Italo Calvino, I Dinosauri, contenuto in Le Cosmicomiche. È una metafora del trasformismo quasi genetico, perfino inconscio, del nostro Paese. Racconta la storia di un dinosauro superstite nella terra dei Nuovi che di quei giganteschi rettili conservano e tramandano un ricordo spaventoso. E si conclude con la nascita di un Nuovo, convinto di essere tale, che invece il dinosauro riconosce come una perfetta copia, quasi un clone, di sé. In questa fase, se ci sono cloni andreottiani in giro, rimangono invisibili. Anche se l’aggettivo «andreottiano» viene regalato o affibbiato a questo o a quel neopotente come complimento o, più spesso, come marchio di infamia. D’altronde, l’Italia dopo le elezioni del 4 marzo 2018 è entrata in una fase completamente nuova. La si chiami Terza Repubblica o no, sancisce la fine di un sistema; e il trionfo di un «populismo», termine sempre più insufficiente e ambiguo per definire fenomeni diversi, che in realtà è il prodotto finale dell’Italia riemersa orfana della guerra fredda: l’Italia postandreottiana. Il senatore a vita già si sentiva perso in quella berlusconiana. Forse perché, come intuì il politologo Giovanni Sartori nel 1993, citato da Luciano Fontana nel suo Un Paese senza leader, «dalle rovine del sistema bloccato di Andreotti per ora è uscito soltanto un sistema frantumato che non fa più sistema». Di questa frantumazione, il senatore a vita è stato spettatore e vittima impotente. Amico di pontefici, capi di Stato, suore, mendicanti, bancarottieri, santi, dittatori, attrici, emiri, pittori, calciatori, ladri, collusi con la mafia, è rimasto sempre se stesso: quasi che quella fauna eterogenea gli servisse a confermare le sue idee su un’umanità purgatoriale. Quando una volta gli riferii che un suo amico cardinale mi aveva parlato di lui come di un personaggio pericoloso, rispose, sornione: «Io non ho mai torto un capello a nessuno». E alla mia replica, che magari poteva averlo fatto per suo conto qualcun altro, con un sorriso impercettibile, che lasciava trasparire una smisurata ironia, ribatté: «Guardi che io non conosco solo pregiudicati». Allora, era l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, poteva scherzarci su. La guerra fredda era agli sgoccioli, ma non ancora superata. Lui sedeva a palazzo Chigi, per la sesta volta presidente del Consiglio. E non c’erano ancora indizi evidenti che il suo mondo si stesse rapidamente sgretolando. In quel momento, era un felice sopravvissuto: a due guerre mondiali, sette papi, la monarchia, il fascismo, la Prima Repubblica. E sarebbe uscito più o meno indenne dalla Seconda e da sei processi per mafia e omicidio. Sarebbe diventato un ex potente che si faceva fatica a definire ex, e del quale le giovani generazioni sapevano poco, e quelle vecchie ritenevano di sapere (quasi) tutto, anche se non era vero. Il paradosso è che erano giustificate entrambe, perché per decifrare Andreotti occorreranno forse decenni. Non basterà neppure spulciare uno a uno i tremilacinquecento faldoni del suo archivio, affidato all’Istituto Luigi Sturzo nella primavera del 2007. Si troverà sempre qualcosa, un appunto scritto a mano, un documento, una «memoria», un suo diario, capaci di aggiungere un’altra sfaccettatura alla sua personalità enigmatica; e a confermarlo come guardiano ed emblema del Purgatorio italiano. È un simbolo che lui stesso, probabilmente, solo alla fine dei suoi giorni si è reso conto di incarnare. Prima, nel senso di prima dei processi ai quali è stato sottoposto, Andreotti giocava con la propria fama luciferina standosene in quello che riteneva il paradiso del potere. Quando nel 1989 gli feci sapere che avevo scritto una biografia su di lui, la risposta fu fulminante. «Mi vuole preparare il coccodrillo?» disse con una voce resa ancora più nasale dal sarcasmo. Alludeva agli articoli che i giornali preparano e mettono in archivio in attesa che un personaggio muoia; e che in gergo si chiamano, appunto, «coccodrilli». Aggiunse che non amava le biografie da vivo. Ma capiva che si potesse parlare di lui «perché in fondo» celiò con civetteria «io sono postumo di me stesso». Allora aveva settant’anni e giocava soltanto a fare il sopravvissuto. In quel momento, però, non poteva sapere quanto la sua battuta rischiasse di anticipare e quasi imitare la realtà del suo futuro prossimo. Il dramma dei processi, le speranze effimere di un ritorno al vertice delle istituzioni, i suoi libri, quelli scritti da altri sul processo, i film su di lui, la rapidità con cui gli cambiò il mondo, il «suo» mondo intorno: tutto lo obbligava a essere analizzato come uno strano, enigmatico fossile politico, da maneggiare con cautela. D’altronde, è difficile che gli enigmi muoiano: sono per definizione eterni. Andreotti ha subìto processi per mafia e omicidio e ne è uscito assolto, seppure con una formula a due facce nella sentenza palermitana. Ha visto crollare la Prima Repubblica, la «sua» Repubblica; e nascere ed entrare in crisi la Seconda. Ha assistito impotente all’affermarsi di altri partiti, che hanno seppellito la Dc: anche se si è illuso di risuscitare il centrismo. Nel 2006 è stato perfino candidato per il centrodestra alla presidenza del Senato: una ventata di popolarità e un profumo di potere, questo sì postumo, durati pochi giorni ma capaci di riesumare in modo un po’ patetico la leggenda della sua longevità e della sua onnipotenza. Forse, è soprattutto nel rapporto con una Seconda Repubblica che si rifiutava perfino di definire tale, che Andreotti è apparso postumo di se stesso: non la capiva, e non gli piaceva. Per questo si mostrava recalcitrante ad accettare i nuovi tempi quando affrontava la politica estera, sulla quale pure era un mostro di esperienza e di conoscenza delle cose e dei potenti del mondo. D’altronde, era un politico «programmato» per la guerra fredda; interprete ortodosso della simbiosi del dopoguerra, oggi non più così scontata, fra politica italiana e vaticana anche sul piano internazionale. È stato un europeista e atlantista senza illusioni ma con una lucida percezione dell’interesse nazionale italiano e dei suoi limiti, che ha vissuto in un’Europa senza guerre, e che ha contribuito alla sicurezza del Paese sotto il protettorato degli Stati Uniti. Concetti come unilateralismo, guerra preventiva gli provocavano una reazione istintiva di rigetto. Ma Andreotti, nato nel 1919, ai tempi di Benedetto xv, rimase in primo luogo un papalino. Nel 2013 ha visto eleggere l’ottavo pontefice della sua vita, l’argentino Jorge Mario Bergoglio, Francesco, mantenendo con il Vaticano un rapporto inossidabile: forse l’unico che abbia retto durante gli alti e bassi destabilizzanti negli anni finali della sua esistenza. Non si esagera se si dice che per decenni ha fatto la felicità di qualunque entomologo del potere. Andreotti è stato un esemplare unico in termini di longevità, di sopravvivenza agli scandali, di dimestichezza con gli apparati dello Stato e del Vaticano, di consuetudine con le classi dirigenti mondiali del passato e con i meandri più opachi del potere. È stato unico perfino nell’aspetto fisico, che ha nutrito generazioni di vignettisti e di avversari a caccia di icone da demonizzare. Dopo essere stato incombente per mezzo secolo come uomo politico e soprattutto di governo, e come enigma dell’Italia democristiana, Andreotti «non c’è» più: non solo fisicamente ma politicamente, culturalmente. Non è più nemmeno un uomo-metafora, testimone di miserie e nobiltà della classe dirigente cattolica a partire dal 1945. Il «processo del secolo» che doveva chiarire una volta per tutte i contorni della sua personalità e le sue responsabilità, consegnandole all’inappellabilità delle sentenze, si è concluso nel modo più andreottiano che si potesse immaginare: con una verità in chiaroscuro, sfuggente, quasi contraddittoria. La spola penosa di quel vecchio ex potente tra Roma e Palermo per sentirsi rovesciare addosso anche le accuse più inverosimili, ne segnò il carattere e i comportamenti, rendendolo se possibile ancora più cauto e diffidente; ma forse anche più umile. Rispetto a un’Italia che cambia o finge di cambiare rapidamente, muta convinzioni, gusti, pregi e difetti, Andreotti è stato una certezza: prevedibile, magari anacronistica, bistrattata, ma proprio per questo, tutto sommato, rassicurante. Permetteva al Paese di specchiarsi nel passato; di sentirsi migliore, o semplicemente di assolversi per i suoi peccati nazionali. Sotto questo aspetto è stato una sorta di memoria storica dell’Italia, dopo il secondo conflitto mondiale. E forse, il suo ruolo di nostalgico della Prima Repubblica, della guerra fredda e dei suoi equilibri cristallizzati e dunque protettivi si è conservato a lungo grazie all’incapacità dell’Italia di ritrovare un baricentro, finendo per fotografare le frustrazioni e l’insoddisfazione di un pezzo del Paese. In questo senso, Andreotti ha incarnato l’identità perduta non solo di una classe politica, ma di una porzione dell’Italia moderata; lo smarrimento dei suoi referenti interni, e delle antiche coordinate internazionali. Dopo la fine della Dc, non si sapeva più per chi votasse. Mi confidò che ormai era arrivato «all’indifferentismo» nei confronti dei partiti, e che dunque sceglieva di volta in volta. Per questo votò in un’occasione per An, l’ex Msi, in omaggio al suo avvocato Giulia Bongiorno, che si candidava a destra e che nel 2018 sarebbe approdata al governo in quota Lega; altre, per partitini esistenti quasi nominalmente, ma che ai suoi occhi avevano il pregio di richiamarsi, seppure in modo caricaturale, alla Dc. Non ha mai votato, e lo rivendicava, per il partito di Silvio Berlusconi, col quale aveva condiviso la condizione di imputato ma non l’atteggiamento verso la magistratura che li giudicava. Una volta annunciò che avrebbe messo nell’urna perfino una scheda per Pippo Franco, un attore di cabaret. «È molto intelligente» giustificò quella provocazione. Ma poi negò di averlo votato. Era difficile non cogliere nel suo distacco ostentato verso le scelte elettorali il palpabile disprezzo per quello che doveva apparirgli la Seconda Repubblica: un cocktail di spettacolarità, uso spregiudicato della televisione, e dilettantismo politico; se non altro perché mancava la selezione della classe dirigente attraverso i canali ai quali era abituato Andreotti: Azione cattolica, movimenti giovanili, scuole di partito. Da quando Francesco Cossiga lo nominò senatore a vita, in realtà, visse in un limbo politico nel quale si vantava di trovarsi a suo agio: benché probabilmente non fosse vero. Era l’approdo finale di una parabola che descriveva la traiettoria politica e umana di un italiano dall’esistenza abbastanza unica; ma anche di un’Italia che l’aveva votato, ammirato e detestato per mezzo secolo. In questo senso, era stato l’uomo che aveva riflesso meglio di ogni altro il Purgatorio eterno del nostro Paese. In fondo era stata purgatoriale perfino la sentenza con la quale era stato assolto a Palermo: con la prescrizione, solo la prescrizione del reato di associazione a delinquere fino al 1980, perché allora non esisteva quello di associazione mafiosa; e l’assoluzione piena per il periodo successivo. Per la «sua» Italia, il proscioglimento ai processi di Palermo e di Perugia ha solo confermato quello che pensava: Andreotti era una vittima, il capro espiatorio che le sinistre e una parte della magistratura avevano voluto trovare per processare e condannare la Dc, sovrapponendo responsabilità politiche e penali in modo arbitrario. Gli avversari e la «loro» Italia si mostravano invece frustrati dalle sentenze definitive. Erano pronti a insorgere piccati ogni volta che la supposta «mafiosità» andreottiana veniva ridicolizzata. Ma sotto sotto erano consapevoli che nell’opinione pubblica era passata l’idea che Andreotti avesse «vinto»; che fosse stato assolto perché forse era innocente, o forse perché «aveva dietro il Vaticano». La vulgata popolare era più forte di ogni sentenza. E restituiva una verità più sfumata e problematica di quella che la magistratura aveva preteso di stabilire. Per i nemici rimane la consolazione di un’assoluzione con un’ombra; e dunque la sensazione di avere tenuto in vita e protetto in una sorta di tabernacolo minoritario i sospetti e i pregiudizi sulla sua personalità luciferina. Ma sia chiaro che si tratta di un enigma senza soluzione e di una faida ormai coperta dalla cenere, della quale le nuove generazioni sono all’oscuro. Per loro Andreotti è solo una silhouette contorta in tutti i sensi, dal fisico strano, che appare nelle cineteche della Rai e nei documentari sull’Italia democristiana, per storie di processi e testimonianze sul passato: nulla a che vedere con il presente del potere e dei suoi improbabili rappresentanti. Mi colpì, qualche anno fa, che Giulia Bongiorno, «l’avvocato di Andreotti» per antonomasia, avesse scoperto di essere popolare tra gli adolescenti non per il cosiddetto «processo del secolo», ma perché difendeva tra gli altri il calciatore Francesco Totti, allora ancora capitano della squadra di calcio della Roma. Eppure, nelle altre generazioni l’eco del suo potere rimane, mitizzato in modo perfino esagerato. Francesca Cima, una delle produttrici del film su Andreotti, Il Divo, nel giugno del 2007 mi volle incontrare per chiedere se poteva mettere nei titoli di coda un ringraziamento personale, perché la mia biografia del senatore era stata, diceva, la maggiore fonte alla quale gli autori avevano attinto. Ho risposto che prima avrei dovuto vedere la sceneggiatura. A quel punto, la produttrice del fim è diventata evasiva, ha detto che «non poteva darla in giro»: come se il ringraziamento, e il mio placet a farlo inserire nella pellicola, dovessero essere a scatola chiusa. Naturalmente, a quel punto ho detto di no. Credo che in realtà fosse un accorgimento che i produttori avevano sperato di trovare soprattutto per tutelarsi di fronte alla possibile reazione di quel dinosauro democristiano dalle mille vite e dal potere, a loro avviso, tuttora terribilmente imprevedibile. Mi ha altrettanto sorpreso che il regista del film, Paolo Sorrentino, dopo avermi invitato a cena abbia fatto come prima domanda: «Ma secondo te Andreotti è mafioso?». La cosa singolare era che entrambi, Sorrentino e Cima, si dicevano convinti che Andreotti la loro sceneggiatura top secret l’avesse già letta «attraverso i suoi canali: figurati se qualcuno dei suoi amici nel cinema non gliel’ha già fatta vedere». Si crogiolavano nel mito e nell’enigma, spaventati e insieme attirati irresistibilmente da quella metafora vivente di un’Italia senza verità certe: al punto che perfino l’incontro che Andreotti ha avuto con Sorrentino è diventato qualcosa di probabile, mai vidimato come avvenuto; non, almeno, da parte del senatore a vita. Quell’atteggiamento mi è sembrato la conferma di riflessi più forti di qualunque sentenza della magistratura: perché si sono sedimentati e cristallizzati nella memoria collettiva del Paese. Sorrentino e Cima mi hanno dato l’idea di due tipici italiani di una sinistra ideologica, confusa di fronte a un personaggio troppo sfaccettato e carico di storia, per suggerire non solo risposte, ma a volte anche domande pertinenti. Eppure, credo che Andreotti abbia beneficiato di questi pregiudizi: almeno fino a una certa data. E comunque, sono stati la vera garanzia della sopravvivenza del suo mito. Questo libro è un tentativo di spiegare perché non esiste più, perché è stato sbiadito da cambiamenti epocali e tuttora in incubazione. E di farlo conoscere a chi, per motivi generazionali, vorrebbe capire meglio che cosa siamo stati e non siamo più. Questo è un Paese che dice di voler risolvere gli enigmi. In realtà, se li tiene, se li coccola e ci sguazza dentro, come se fossero un rassicurante Purgatorio nel quale scavarsi una nicchia: forse perché la convinzione inconfessabile è che il Purgatorio italiano non spalanca le porte del Paradiso, ma dell’Inferno. Roma, dicembre 2018 1 Giulio, 10 in condotta Il nipote del cappellaio «Chi dalla porta di Segni sale alla piazza, percorrendo via San Vitaliano, già via Cavour, ma che per i segnini veraci è sempre la “Via Ritta”, a oltre metà del percorso si trova di fronte una nicchia scavata nel muro e riquadrata con elementi architettonici di pietra locale a formare una elegante edicola. A quel punto si apre via della Pretura e il caseggiato che dà inizio alla fiancata destra della strada è più sporgente di quello di sinistra. Su quella sporgenza a metri 2,26 dal piano stradale, si apre una nicchia. Fu fatta costruire alla fine dell’800 dal sig. Francesco Andreotti, che nella bottega a lato gestiva un negozio di cappelli. Uomo molto religioso era Francesco, come tramandano i vecchi. Era nato a Segni il 28 luglio 1857 da Andrea e Vittoria De Santis. Il 18 aprile 1887, all’età di trent’anni, sposò Clotilde Colabucci da cui il 23 aprile dell’anno successivo nacque Alfonso Filippo Mario. Questi il 20 ottobre 1912 sposò a Roma Rosa Falasca di Augusto. Alfonso e Rosa ebbero tre figli: Francesco, Elena, morta giovanissima nel 1934, e Giulio. I Segnini avranno già capito che quel Giulio è il celebre concittadino (anche se nato a Roma), oggi ministro degli Esteri…» La storia di Giulio, il nipote del cappellaio di Segni, comincia con questa descrizione del suo albero genealogico venata di orgoglio ciociaro. La racconta il Cuore della Diocesi, supplemen to del bollettino diocesano di Velletri e Segni, dell’11 novembre 1988. E il biografo è un sacerdote, monsignor Bruno Navarra, uno dei tanti che hanno accompagnato e applaudito la vita di questo ragazzino precoce, con le spalle da sempre un po’ curve, le orecchie a sventola, un carattere che appariva innatamente gelido e una saggezza «da vecchio» altrettanto congenita. Ancora se lo ricordano, nel paesotto papalino che produceva buoni preti e ottime salsicce. Lo rammentano già orfano, perché il padre, maestro elementare, era morto dopo «un’infermità dipendente dal servizio di guerra», il 14 dicembre 1921, che lui non aveva ancora tre anni. La tomba è lì, nel cimitero del paese, accanto a quella della sorella di Giulio, Elena, uccisa da una polmonite fulminante a diciott’anni. I segnini cercano di rintracciare la predestinazione al potere. Collegano episodi sedimentati nella memoria alle gesta del celebre concittadino. Frugano per trovare un legame che spieghi perché il nipote del cappellaio, nato a Roma e di casa a Segni nei mesi estivi, sia diventato «Andreotti». Ma affiorano soltanto immagini di un’infanzia modesta, all’ombra di una madre vedova che doveva tirar su tre figli piccoli. E a volte affidava il minore all’esattore del dazio, perché gli desse un’occhiata mentre lei andava a fare qualche commissione. Era un bambino vivace e insieme molto controllato. Per un po’, prima che la madre decidesse di tornare a Roma, frequentò la scuola materna di Segni tenuta dalle suore di Santa Giovanna Antida. Mangiava lì. Non erano certo tempi di abbondanza, non c’era quello che anni dopo si sarebbe chiamato benessere. Andreotti diceva un po’ disgustato a mamma Rosa: «Mi danno da mangiare la terra», e in effetti il sangue bovino bollito che a volte veniva servito dalle suore a tocchi, solidificato, non doveva essere molto diverso da una zolla di terra, per quanto nutriente. Non c’era da scialare, e le prospettive di un buon lavoro erano roba per pochi. Contro la miseria e la sovrappopolazione, molte delle famiglie della Valle del Sacco mettevano i figli in seminario: era uno dei modi per sfuggire alla disoccupazione, come diventare carabinieri nel Sud. Mamma Rosa insegnava a Giulio la religiosità. Gli spiegava che il venerdì possibilmente bisognava mangiare di magro, che la Chiesa e i preti erano punti di riferimento saldi, importanti; che il papa era un secondo padre e lo Stato un’entità più distante, e vagamente ostile. Di affetto ce n’era molto, ma compresso, mutilato di qualsiasi manifestazione esteriore. Era come sovrastato dal rispetto e dall’introversione. Una volta, molti anni dopo, chiesero ad Andreotti se era vero che non avesse mai scambiato un bacio con la madre. Rispose di sì. «D’altra parte» aggiunse con un sarcasmo che rivelava qualcosa di doloroso «Giuda sembra che baciasse molto, e non era un sentimentale.» Nelle estati passate a Segni, i suoi compagni di gioco e gli amici più stretti erano seminaristi. Giulio stava sempre con loro. Andava a raccogliere le castagne con Vincenzo Fagiolo, futuro arcivescovo di Chieti e presidente della Caritas, e poi cardinale, e con Angelo Felici, che sarebbe diventato nunzio apostolico a Parigi e poi cardinale. Lo zio, Pericle Felici, sarebbe stato segretario del Concilio e latinista del papa. Si arrampicavano fino in cima al Monte Lupone, Giulio in maniche di camicia e gli altri con la tonaca nera e un fazzoletto in testa, annodato ai quattro angoli, per evitare un’insolazione. Con loro andava spesso Spigone, un dirigente dell’Azione cattolica che veniva delegato alla cottura dell’abbacchio. I genitori di Felici possedevano delle terre, e in paese con cinque lire si potevano affittare dei cavalli. I chierichetti andreottiani Gli altri bambini pensavano che Giulio fosse il nipote del vescovo, De Sanctis. Lo vedevano sempre sgusciare nella cattedrale, o uscirne. E invece scoprirono che quel ragazzino vivace, pallido e senza accento ciociaro, andava lì a fare il chierichetto: la sua carriera di uomo del Vaticano cominciava dalla sacrestia della chiesa di Santa Maria Assunta. Ce n’era, da fare. Gli undici altari della cattedrale erano occupati ogni mattina da stuoli di preti che celebravano tra le venti e le trenta messe al giorno. E Andreotti organizzava: era l’amministratore e il generale dell’esercito dei chierichetti che con ampolle di vino e acqua benedetti assistevano i sacerdoti. Giulio reclutava i bambini, li smistava agli altari, ne guidava con efficienza e bonarietà il «lavoro». Aveva quattordici anni, ed era il pupillo del parroco. Trascorreva le sue vacanze estive a ricopiare sui registri parrocchiali battesimi, comunioni, matrimoni e morti dei compaesani dei propri genitori. Era paziente, metodico, preciso: un vero artista della routine burocratica. E attraverso quei nomi, quelle date, quegli intrecci familiari imparava a conoscere uno per uno i suoi concittadini d’adozione. Camminava un po’ curvo, era un fatto di costituzione e insieme di pigrizia, e la madre lo rimproverava: «Stai dritto con le spalle, Giulio!». Ma nessuno se ne accorgeva, o lo prendeva in giro. Anzi, era rispettato perché non diceva parolacce, non faceva apprezzamenti su madri e sorelle degli altri ragazzi, non si picchiava. Non che fosse un candidato alla santità. Più che un angioletto, dava l’idea dell’acqua cheta. E non era neanche un tipo particolarmente remissivo. Quando lo colpivano, reagiva. Si sapeva far rispettare con una perentorietà molto poco curiale. Se ne accorse a proprie spese Enzo Ribechi, il figlio dell’avvocato di Segni. Accadde durante la processione di San Bruno. I ragazzi e le ragazze si disposero lungo il percorso con un obiettivo innocentemente dispettoso: prendere in giro Giulio, il nipote del cappellaio, che stava sempre con i seminaristi e adesso incedeva col suo moccolo acceso in mano. Da un gruppetto partì il primo soffio sabotatore: la candela di Giulio era spenta. Andreotti lanciò uno sguardo dei suoi, si fece riaccendere il cero e proseguì. Ma dieci metri più avanti c’erano altri giovani in agguato: gli spensero la candela per la seconda volta. Giulio capì che non era finita. E con la sua fiammella di nuovo viva si preparò al terzo «assalto». Ma Ribechi non ci riuscì. Prima che potesse soffiare, si trovò gli occhi di Andreotti puntati addosso, e la candela accesa in faccia. Il nipote del cappellaio porgeva l’altra guancia con parsimonia, insomma. Aveva la sua personalità. E la faceva valere senza imporla, senza ostentarla. L’unica volta che Giulio si vantò, ricordano a Segni, fu quando comprò all’edicola una copia dell’«Osservatore Romano» e la fece vedere in giro alle torme ammirate e un po’ sporche dei suoi piccoli protetti. C’era una foto del papa circondato da ragazzi e lui era lì, quasi a contatto di gomito col pontefice. Allora aveva diciassette anni. Mamma Rosa, zia Mariannina e la fuga da casa Aveva imparato dalla madre a parlare poco e ad ascoltare molto, a controllare le manifestazioni di affetto, a essere concreto e a diffidare di chi parlava difficile. Aveva appreso a fingere indifferenza di fronte alle cose che lo facevano soffrire, perché – gli avevano insegnato – manifestare l’arrabbiatura significava dare una soddisfazione in più a chi lo aveva ferito. L’impassibilità come difesa: era una scuola di vita che un tempo si sarebbe detta spartana, e che per un bambino non doveva essere il massimo della gioia. Ma il piccolo Andreotti aveva davanti la figura magra e i modi essenziali di Rosa Falasca, l’immagine meno che sfuocata di un padre che praticamente non aveva conosciuto, e quella della sorella Elena, morta dopo un’infreddatura presa il giorno stesso della sua iscrizione all’università di Roma, quando lui aveva quindici anni. Sottovoce, come si fa sempre davanti a un dolore vero, a Segni raccontano che quella morte sconvolse a lungo la famiglia. La signora Rosa si chiuse in casa, quasi non voleva più uscire. Avrebbe tenuto per sempre il ricordo della figlia, le sue foto. E Giulio, l’imperturbabile, proprio in quel periodo fece forse l’unico gesto di «pazzia» della sua vita: un giorno scappò di casa, se ne andò senza dire niente alla signora Rosa. Prese il treno a Roma, e partì verso il Nord. Voleva andare a Firenze, entrare in seminario e farsi prete come tanti suoi coetanei di Segni. Fu lì che lo ritrovarono, qualche giorno dopo. Preoccupatissima, la madre ricorse al solito parroco segnino, padre Giuseppe Del Giudice. Sapeva che Giulio era andato a consultarsi con il vecchio vescovo di Segni, passato a Todi. Molti anni dopo, monsignor De Sanctis svelò il mistero: parlando al Congresso eucaristico di Assisi, disse con enfasi che se fosse dipeso dal popolo come ai tempi di sant’Ambrogio, Andreotti sarebbe stato acclamato vescovo. Ma l’idea del celibato proprio non lo entusiasmava. Giulio era uno scolaro diligente, per quanto non bravissimo. Dopo la parentesi della «materna» a Segni con le suore di Santa Giovanna Antida, frequentò la scuola a Roma. Alle elementari andò prima alla Armellini, che si trovava in piazza della Maddalena, e poi alla Emanuele Gianturco, un istituto statale di via della Palombella, alle spalle del Pantheon. Il giornale della classe III C dell’anno 1926-27 è un librone di cartone duro con la copertina celeste e l’intestazione pomposa del «Governatorato di Roma». La sua insegnante era la «Signorina Orsola Bruscani». E «Andreotti Giulio, figlio di fu Filippo e della Rosa Falasca…» era un alunno che in tutto l’anno era rimasto assente soltanto quattro giorni. Aveva «lodevole» in «Rispetto all’igiene e pulizia della persona», in «Religione», in «Lettura espressiva e recitazione». In quinta, con l’insegnante «Grossi Raffaele», fu promosso con due soli «brutti voti»: due «sufficiente» in «Bella scrittura» e in «Lavori domestici». Per il resto, «lodevole» in lingua italiana, lettura espressiva, rispetto all’igiene… e naturalmente religione. Nei registri della scuola, in quelle pagine scritte in bella calligrafia con l’inchiostro nero, che fa subito pensare al calamaio e alle penne d’oca, si indovina la realtà di una famiglia povera, assistita dal patronato fascista. Andreotti riceveva i libri e i quaderni gratis. «Cartella prestito littorio: Lire 100» racconta il registro. È un aspetto che non appariva, a Segni, dove la sua famiglia era considerata parte del piccolo notabilato locale, perché la casa dei nonni aveva più di due stanze e perfino la scala interna; soprattutto, perché gli Andreotti e le sorelle Falasca (si chiamavano come i colori: Bianca, Rosa, Celeste, Chiara, Bruna e Lilla) avevano chi più chi meno studiato. Ma a Roma, la Roma del regime, retorica quanto burocratica e preindustriale, tra i primi sventramenti del centro storico e il Concordato difficile fra Chiesa e regime mussoliniano, la realtà quotidiana era più dura. Per la vedova di un maestro elementare, costretta a tirare avanti con una pensione di guerra, i margini per passare da una vita modesta al benessere non c’erano. Alle medie, che allora si chiamavano «ginnasio inferiore», il piccolo Giulio era un bambino vivace, gracile e povero. E già assillato da frequenti mal di testa. La madre andava raramente a chiedere notizie del figlio: un po’ non ce n’era bisogno, perché studiava con profitto; un po’ aveva troppo da fare. A un certo punto fu necessario mandare uno dei figli in collegio per alleggerire il bilancio familiare. E la signora Rosa scelse Francesco, che aveva sei anni più di Giulio e soprattutto era più robusto. Abitavano in una casa modesta a via dei Prefetti 18, ospiti di una vecchia zia, Mariannina. Allora si nasceva in casa, aiutati dalla levatrice, e Andreotti era nato proprio lì, a due passi dal Parlamento. Il portoncino si vede ancora oggi, accanto al palazzo dove abitò per un anno Samuele Finley Breese Morse, quello dell’alfabeto Morse: c’è la lapide sul muro. La storia orale del vicolo, tramandata dal trattore Ugo Velletrani, racconta che Giulio cominciò a non perdere tempo da quando venne alla luce: nacque prima che arrivasse la levatrice. Gli abitanti del tempo di via dei Prefetti dicevano che quell’edificio senza riscaldamento, un po’ buio, era «il palazzo dei poveri». Il 1° febbraio fu battezzato a Santa Maria in Aquiro, una chiesa di piazza Capranica alle spalle di Montecitorio, il «Monte Citorio» sede, un tempo, dei tribunali papalini dai quali partivano le citazioni. Nella parrocchia conservano il libro dei battesimi. Giulio, «nato alle 7 antim.», annota con precisione curiale il registro, in realtà fu chiamato Giulio Maria Gaspare. Ebbe per padrino «Verna Gaetano, fu Tobia, da Avezzano». E ricevette il sacramento da padre Severino Tamburrini: un sacerdote ciociaro, inutile dirlo. Fu tirato su dalla madre e dalla zia, la mitica zia Mariannina, sua seconda maestra di vita. «M’allevò nella vecchia saggezza cattolica del popolo romano: non drammatizzare mai troppo, col tempo tutto s’aggiusta, mantenere nella vita un certo distacco da tutto, le vere cose importanti non sono molte…» E anche aspettare «il corpo intontito del nemico: istupidito dal suo proprio errore» ha detto in una vecchia intervista degli anni Ottanta a Domenico Campana, sul «Giorno». Sembra di vederlo, quel bambino magro, con il viso ossuto e gli occhi svegli, che si nutre dei suoi detti popolari e se li stampa nella memoria. La zia era del 1854, aveva vissuto quindici anni nello Stato Pontificio e, come una pedagoga papalina, spiegava a Giulio che fino al 1870 «la gente non pagava le tasse per non dare soldi al papa. Dopo il 1870 non le pagava per non dare soldi a chi teneva prigioniero il papa. La gente, dunque, è sempre uguale» concludeva Andreotti. Ma intanto Giulio studiava, andava a messa, respirava aria di Chiesa, giocava a palletta al vicolo Valdina, per la strada. Oppure si spingeva con «la banda» fino a Villa Borghese, o magari optava per il nascondino tra le auguste e sacre colonne del Bernini in piazza San Pietro. Non era una peste, piuttosto quello che si dice un bambino sveglio. La signora Wilma Cioci Piccinini, sua professoressa alla scuola statale Ennio Quirino Visconti, alla fine degli anni Ottanta ne tracciò un profilo psicologico che non dev’essere troppo distante dalla realtà: «Non ricordo gesti di rabbia né di particolare dolcezza. Teneva un normale comportamento affettuoso, non inibito, cordiale e sostanzialmente estroverso. Dimostrava un particolare amore per la cultura, ma non generico e uguale per tutto. Era di famiglia religiosa, era molto religioso anche lui ma non certo con manifestazioni esteriori di tipo formale. Era una religiosità profonda ma riservata. Sembrava più maturo della sua età. Era ben socializzato e amico di tutti. Probabilmente soffriva per la mancanza del padre ma non lo dimostrò mai. Non si sarebbe mai potuto prevedere un suo specifico interesse per la politica. Certo, si poteva immaginare che avrebbe fatto un lavoro intellettuale di particolare livello e creatività: probabilmente lo scrittore o il professionista…». La «gente cattiva» del Parlamento Eh sì, la politica proprio non lo toccava. Gli era rimasta impressa una risposta datagli dal signor Giovanni Conti, repubblicano, massone e mangiapreti, che si alternava con la signora Rosa per portare a scuola il figlio Dante e Giulio. «Chi c’è là dentro?» aveva chiesto Giulio passando davanti a Montecitorio. «C’è la gente cattiva che ci governa» lo aveva istruito il signor Conti. Da perfetto bambino, Andreotti riferì l’episodio alla madre, chiedendo: «Perché è gente cattiva?». E la saggia signora Rosa, maestra di praticità, gli svelò il segreto: «Perché loro hanno il riscaldamento, e noi no». Allora decise che i suoi idoli non abitavano in quello che il «popolino» chiamava «il palazzo dei chiacchieroni»; non ancora. Erano ben altri. Si chiamavano Monzeglio, Allemandi e gli altri giocatori della Roma, «i giallorossi» che andavano a mangiare proprio sotto casa sua, nella trattoria della Sora Emma. Il ristorante era attaccato all’abitazione di Elisabetta Pacelli, nipote del futuro papa Pio XII. E Andreotti si ricordava che quando l’allora segretario di Stato vaticano l’andava a trovare, i poliziotti occupavano il portone e la strada fino a piazza Firenze, alla fine di via dei Prefetti. Ma la «scorta» si disuniva se c’erano i calciatori. Come li vedevano, gli agenti correvano a farsi fare un autografo, lasciando Pacelli alla mercé degli improbabili attentatori. Giulio imparò rapidamente che il Vaticano, la Chiesa cattolica, il papa erano ben più importanti di Monzeglio. E anche della «gente cattiva» nascosta nella pancia di palazzo Montecitorio. L’anziana zia, che nel 1870, al momento della presa di Roma, aveva sedici anni, raccontava al nipote che l’alluvione di quell’anno rappresentava la punizione divina contro i piemontesi invasori. C’era papa Pio IX, allora, e la storia orale di quella vecchia, irriducibile «romana, cattolica e apostolica» tramandava la solenne familiarità del pontefice in carrozza per via Giulia nei pomeriggi romani, impartendo benedizioni e raccogliendo baciamani e suppliche. Giulio non era un tipo impressionabile. Sapeva distinguere con ironia le fisime di quella buona vecchietta dalla possibile realtà. Ma dai racconti intuiva che la Roma papalina non aveva ancora digerito l’«invasione» del Risorgimento del Nord. E che il Vaticano incarnava un contropotere, se non altro spirituale, nel quale «il popolino» si riconosceva con maggiore familiarità che non in quello della monarchia sabauda. Molti anni dopo avrebbe scritto un bel libro su quegli anni: La sciarada di Papa Mastai, Pio IX appunto. Un «imbucato» alla corte del papa Il piccolo Andreotti si sentiva attratto da quel mondo «al di là del Tevere». Gli piacevano la sua discrezione, i suoi riti vagamente orientali, fastosi. A otto anni, si «imbucò» a una udienza concessa da Pio XI a un gruppo dell’Azione cattolica belga. Nessuno ci fece caso. E quando il pontefice, che sfilava davanti ai fedeli lasciandosi baciare pazientemente la mano, si accorse di quel bimbetto con la testa grossa e le spalle curve, gli si rivolse in francese. Giulio arrossì, e confessò balbettando di essere un intruso. La seconda volta che gli capitò di essere notato, Andreotti era appollaiato in cima a uno dei confessionali di San Pietro. Ce l’aveva posato una guardia svizzera, resasi conto che il ragazzino non si sentiva bene. Era il giorno della beatificazione di don Bosco, la basilica era gremita, l’odore della cera delle candele dava alla testa. Dal tetto del suo confessionale, il piccolo Giulio fece in tempo a vedere passare il papa sulla sedia gestatoria. Pio XI gli mandò un gesto di benedizione: chissà se aveva riconosciuto l’«imbucato» di qualche settimana prima. Certo è che crescendo, la familiarità andreottiana con quel mondo profumato di incenso e di santità aumentò. E nelle sue estati trascorse a Segni in casa di Celeste Falasca, una delle sorelle della madre, il tempo che Giulio dedicava alla chiesa faceva addirittura irritare i parenti. Ormai era un ragazzo di diciassette anni, sveglio e dai lineamenti delicati. A Roma aveva cambiato scuola, adesso frequentava il Regio Liceo Torquato Tasso di via Sicilia, che col Visconti si contendeva la palma di scuola d’élite, e grazie alla presenza dei figli di Mussolini se la vedeva riconosciuta. La famiglia si era trasferita da via dei Prefetti a via Bisagno 25, dalle parti di corso Trieste, al Nomentano. Era sempre magrolino, con la faccia slavata, gli occhi profondi, ironici, e i capelli neri, lisci, pettinati all’indietro. La situazione economica non era cambiata molto: la pensione di guerra era sempre la stessa, 240 lire al mese, e la madre faceva fatica a mantenere i due figli. Per Giulio, Segni era una specie di ritorno alle radici, al mondo dell’infanzia. Da adolescente, però, il suo status era cambiato. Leggeva ogni giorno «L’Osservatore Romano», tranne la domenica, quando comperava il «Corriere della Sera». Era l’unico, in casa, a portare quelle testate. La madre e la zia preferivano «Il Messaggero». Si divertiva andando a cavallo e dava ripetizioni di latino e di analisi logica a Bruno Navarra, Emanuele Lorenzi e Gino Tomassi, tre discoli affidatigli dal parroco. Le lezioni fruttarono ad Andreotti il suo primo guadagno: un pollo e un po’ di uova. Era la prima volta che poteva dire di aver portato a casa qualcosa da offrire ai suoi. Lui era il piccolo della famiglia: non come Francesco, che arrivava a Segni da Roma nei fine settimana, e qualche volta portava al fratello un po’ di cioccolata, un regalo del quale Giulio parlava riconoscente con i suoi alunni. Quel primo guadagno fu anche una piccola rivincita: dalla zia Celeste non si trovava del tutto a suo agio. Sembra che gli facessero un po’ pesare il fatto di doverlo mantenere, seppure solo nel periodo estivo. Gli anni del Tasso Quei polli non erano la civetteria di un ragazzo nato col cucchiaino d’argento in bocca: la prospettiva di avere un lavoro era abbastanza pressante. Quando, nel 1934, Andreotti era passato dal Visconti al Tasso, dopo un naufragio in quarta ginnasio aveva recuperato due classi in una. Vedeva la madre che tirava la cinghia per mandare avanti la famiglia e far studiare i figli. Avrebbe risparmiato tempo. Allora sperava di diventare medico, un’attività distante anni luce dalla vita politica: l’idea rifletteva l’estraneità andreottiana verso qualsiasi tipo di impegno politico, e una vena di altruismo. Aveva davanti il regime fascista, la Chiesa cattolica, e qualche esempio di antifascismo. Il Tasso avrebbe accresciuto in lui lo scetticismo nei confronti del regime e una silenziosa ironia verso le sue manifestazioni più odiose. Ma non era un antifascista. Più semplicemente, cercava di scansare quella paccottiglia propagandistica, quella retorica «imperiale» così lontana dalla sua cultura e dal suo carattere. Studiava: ecco, cosa faceva, anche se non era lo studente del quale si sarebbe detto: «Farà strada». Inoltre frequentava la congregazione mariana di monsignor Antonio Colonna, di cui faceva parte anche Giuseppe Di Gennaro, uno dei primi magistrati rapiti dalle Brigate rosse, e stringeva poche, profonde amicizie che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. Fu proprio sui banchi del liceo di via Sicilia che incontrò Giorgio Ceccherini, un toscano silenzioso e appartato, che sarebbe diventato il suo braccio destro fino alla fine. E le ragazze? Neanche l’ombra. Nel paese dei genitori nessuno lo vide mai andare a spasso con qualche dolce fanciulla ciociara. E anche al Tasso, non risulta che si fosse fatto la fidanzata. Si sa però che Giulio aveva un debole per una certa Maria, chiamata dai compagni Mary: Mary Gassman, sorella maggiore di Vittorio, studente del Tasso anche lui, e fin d’allora «primattore», seppure a uso dei compagni. Molti dei ragazzi che vedeva ogni giorno sarebbero spuntati qualche decennio dopo nella nomenklatura politica e culturale dell’Italia postfascista: Alfredo Reichlin, Luigi Pintor, Luciana Castellina, che sarebbero diventati comunisti; il futuro regista Luigi Squarzina. Vittorio Gassman, alto e atletico, era il fuoriclasse della squadra di pallacanestro «Bruno Mussolini» dei Parioli. E c’era Maria Crocco, detta «Crocchetta», figlia dei Crocco che costruivano dirigibili: avrebbe sposato il futuro direttore dell’«Osservatore Romano», Raimondo Manzini. Bruno e Vittorio erano i due figli del Duce che frequentavano il liceo. Paradossalmente proprio la presenza di quei due ragazzi garantiva alla scuola una sorta di franchigia nell’insegnamento. Il fascismo, addirittura caricaturale nelle sue tendenze censorie, al Tasso mostrava un volto meno intollerante. Chiudeva «italianamente» un occhio con tutti, dal momento che ai Mussolini era consentito molto. Insomma, in pieno regime si respirava una relativa libertà. Il professore di storia della sezione C, quella frequentata da Andreotti, era un socialista patito di Bissolati, Aldo Ferrari, il quale invece di parlare del corporativismo spiegava il materialismo storico. Fu arrestato dopo alcuni anni, a La Spezia, e si uccise. Il professore di latino e greco era un preside retrocesso perché non si era iscritto tempestivamente al partito. Si chiamava Spinelli ed era amico di Gaetano Salvemini. Lo stesso insegnante di religione, don Luigi Costanzo, era considerato tutt’altro che filofascista. Comunque, più che antifascismo c’era tra molti insegnanti freddezza verso il regime. E i cattolici come Andreotti? Si diceva che i giovani dell’Azione cattolica assumessero posizioni coraggiose, addirittura che prendessero le distanze dalla Chiesa del Concordato del 1929 con Mussolini. Ma non al Tasso. E non Giulio, studente scrupoloso e apolitico. È vero, aveva come padre spirituale alla congregazione monsignor Colonna, un diplomatico vaticano per nulla innamorato delle megalomanie mussoliniane. Giulio studiava, preoccupato di non essere troppo di peso alla madre. In terza liceo fu ammesso agli esami con 10 in condotta, col solito «lodevole» in religione, 7 in matematica, un altro 7 (stiracchiato dopo due 6 trimestrali) in cultura militare, 6 in italiano, 7 in latino, 6 in greco, 7 in storia, 7 in filosofia ed economia, 8 in scienze naturali, 8 in storia dell’arte, 6 in educazione fisica. L’ammissione era quella di uno studente bravo senza le stimmate del primo della classe. E gli esami furono ancora meno esaltanti: 6 in italiano, 6 in latino, 7 in greco, 6 in storia, 6 in filosofia ed economia, 6 in matematica e fisica, 7 in scienze naturali e chimiche e geografia, 6 in storia dell’arte, 6 in cultura militare. Correva l’anno di grazia 1937, il primo dell’Asse fra Italia e Germania. Giulio aveva interessi eclettici, e tendeva ad approfondire quello che lo incuriosiva. A quel tempo, coltivava ancora il sogno di fare il medico, pur sapendo che si allontanava sempre di più: sarebbe costato troppi anni di studio e troppi soldi. Le sue ambizioni si spostarono su professioni diverse: l’avvocato, il magistrato. La politica non era neanche contemplata nel novero dei suoi possibili mestieri. Eppure, lì al Tasso aveva creato senza accorgersene alcuni punti fermi della sua vita futura: l’amicizia con Giorgio Ceccherini e quella con Lamberto Belvederi, grazie al quale avrebbe conosciuto in seguito Livia Danese, sua futura moglie (avrebbero chiamato Lamberto il loro primo figlio in suo onore). E soprattutto gli aveva giovato il contatto quotidiano con una cultura e un insegnamento che per il tempo erano davvero eterodossi. Tra fucini e Sinistra cristiana Adesso Giulio era un giovane diplomato, di belle speranze e senza un centesimo in tasca. Per questo si impiegò come «precario» all’ufficio delle imposte. Ma doveva e voleva continuare a studiare. Così si iscrisse all’università e insieme alla Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana. Non lo sapeva, ma in quel momento i suoi passi felpati lo stavano avvicinando alla politica. Politica ancora con la p minuscola, naturalmente: sovrastata dall’impegno religioso, dall’assistenza ai poveri nella borgata di Pietralata, dalla figura del papa e dalle sue udienze a Sant’Ivo alla Sapienza; filtrata e insieme stimolata dall’insegnamento e dalle riflessioni di un giovane monsignore che si chiamava Giovanni Battista Montini. Furono gli anni della maturazione. In quel periodo a cavallo tra la fine degli anni Trenta e il 1940 Giulio Andreotti cominciò a capire meglio che cosa fosse il fascismo. Conobbe i vecchi «popolari» e i loro rampolli, mandati a scuola all’Apollinare e, le ragazze, alle suore di Nevers, perché solo lì erano certi che non avrebbero ricevuto un’educazione fascista. Adesso era immerso in un ambiente antifascista, frequentava un’élite culturale che aveva in Montini un ispiratore e una guida: il nipote del cappellaio di Segni veniva a contatto con un microcosmo un po’ particolare, che rompeva la cappa del provincialismo fascista e cattolico. La Fuci viveva in bilico tra legalità e illegalità, tollerata a fatica da un regime che all’inizio degli anni Trenta si era scontrato frontalmente con la Chiesa sull’educazione dei giovani. Alcuni dei suoi iscritti venivano pedinati dalla polizia; il ministero della Cultura popolare, il Minculpop, seguiva con fastidio le discussioni a metà strada fra religione e sociologia, che apparivano sulle pubblicazioni della Federazione. Il primo impatto fu difficile. A Firenze, nell’estate del 1937, Andreotti fu presentato a un veterano della Fuci, Vittorio Emanuele Giuntella. Giulio era una matricola della facoltà di Giurisprudenza. Il salto dalla congregazione mariana alla Fuci non era uno scherzo. E i «fucini» se lo studiavano con attenzione. Si accorsero subito che veniva da una famiglia modesta, ma chi visitò la casa di via Bisagno rimase colpito dalla povertà e insieme dalla dignità di quell’appartamento. La dimensione «religiosa» della Fuci, il fervido tran tran fatto di letture sacre, scampagnate con gli amici, partite a pingpong in parrocchia, antifascismo vagamente catacombale, subì un primo strappo nella primavera del 1938. A Orvieto si teneva un bel convegno della Federazione, con una relazione del professor Giorgio La Pira sul tema: «Il messaggio cristiano come educatore di sicurezza e di fiducia». Un titolo anodino, che rifletteva la difficoltà di chiamare l’antifascismo cattolico per nome, di prendere di petto l’argomento. Da una delle ultime file si alzò un ragazzo romano di diciassette anni, alto, allampanato, studente di Medicina. Chiese la parola e cominciò: «Caro La Pira, se noi oggi vogliamo tener fede al messaggio cristiano non possiamo viverlo in astratto, dobbiamo viverlo nella storia e attraverso la storia. Ma per far questo noi dobbiamo oggi adempiere in Italia a un dovere primario: combattere il fascismo». Le parole furono accolte da un silenzio gelido. La sala guardava con aria interrogativa la presidenza del convegno. Il giovane si chiamava Adriano Ossicini, era dell’Azione cattolica, figlio di un amico di Luigi Sturzo perseguitato dai fascisti. Faceva parte del circolo «Dante e Leonardo» e aveva studiato all’istituto pontificio Apollinare con i figli di Spataro, Tupini, Cingolani: la crema del popolarismo antifascista. Ossicini anticipava il collegamento con il movimento popolare operaio che nasceva nella cintura periferica di Roma: era un futuro militante della Sinistra cristiana. Ritto in piedi, aspettava una risposta alla sua provocazione. La Pira non si scompose. «Certo, tu hai posto un problema» disse a Ossicini. «Fate, comunque: qualcosa uscirà.» Andreotti rimase sbalordito e un po’ confuso. C’era anche lui, a Orvieto, in quello strano giorno di aprile che regalava una fitta nevicata. Era seduto in prima fila, aveva un cappottone scuro, pesante, di quelli rivoltati. Si avvicinò a Ossicini e gli disse, a bassa voce: «Vorrei capire bene quello che hai detto». Il giovane allampanato lo guardò con distacco, capì al volo che quel tipo non sapeva un’acca di politica, anzi era proprio uno sprovveduto sotto quel punto di vista. Ma gli fu anche grato, perché Andreotti alla fine gli strinse la mano. Molti non lo fecero, preoccupati o forse invidiosi di quel coraggio. Loro due, Giulio il papalino e Adriano l’eretico, cominciarono a frequentarsi. E non smisero più, accomunati prima dalla politica e poi, quando la politica li divise, dal tifo per la Roma e da una profonda simpatia reciproca. Furono anni intensi di carteggi, scambi di corrispondenza, colloqui sulla possibilità di conciliare cristianesimo e marxismo. Con Andreotti nel ruolo di crociato flessibile di papa Pio XII, di moderato disposto a discutere, dialogare, e anche concedere qualcosa, ma fatti salvi i principi e il placet del pontefice; e con Ossicini e gli altri del suo gruppo, sempre più combattuti tra due fedeltà e sempre più risucchiati a sinistra. Il tiro alla fune dottrinale e insieme politico durò a lungo. Ben presto, Ossicini e l’altro troncone della futura Sinistra cristiana, raccolto intorno ad alcuni studenti provenienti dal Visconti, si resero conto che il Giulio sprovveduto e digiuno di politica incontrato a Orvieto stava cambiando. Franco Rodano, Luciano Barca, Marisa Cinciari, lo stesso Ossicini, dopo le partite a ping-pong con Andreotti alla «Scaletta», il circolo dei gesuiti frequentato dai «viscontini», lo affrontarono come interlocutore; e alla fine come avversario. Giulio sarebbe diventato un dirigente cattolico di primo piano. E la Chiesa stava silenziosamente allevando la classe dirigente del postfascismo. Il 2 marzo 1939 Eugenio Pacelli veniva eletto papa: papa Pio XII. A Giulio era capitato di vederlo da vicino qualche volta, in passato. La casa degli Andreotti in via dei Prefetti aveva un terrazzo in comune con la famiglia del commendator Rossignani, sposato con la sorella di Pacelli. E molti anni dopo avrebbe ricordato che quando l’allora monsignore andava a pranzo in via dei Prefetti, «portava in dono squisite tavolette di cioccolato. Per loro generosità ne beneficiavo anch’io…». Lo era anche andato ad ascoltare pochi mesi prima dell’elezione. Aveva tenuto un discorso ai cittadini nella Sala Borromini, e Andreotti, da buon romano, era rimasto impressionato da una sua frase: «Roma non è tale se non per il Romano Pontefice». In fondo era quello che pensava anche lui. E poi, l’incoronazione di Pio XII coincise con il suo primo momento di notorietà. Vi andò con un altro fucino, Francesco Negri. Dentro, la basilica di San Pietro era gremita di delegazioni. Fuori, sulla scalinata non c’era un cane. In compenso c’erano Giulio e Checco, cioè Francesco, che un fotografo della «Tribuna illustrata» immortalò. Era proprio scritto che la sua vita dovesse intrecciarsi con quella vaticana. Negli stanzoni sacri c’era un bibliotecario arcigno che lo aspettava per rimproverargli interessi troppo futili per quel momento, e mettere i suoi modi già felpati, la sua moderazione e la sua furbizia al servizio della Storia: quella con la S maiuscola. 2 «Andreottino fa carriera» Il «covo» di largo Cavalleggeri e De Gasperi Alla Fuci, Giulio pensava di aver trovato un nuovo gruppo di amici, affini per cultura, fede religiosa, interessi. Chissà, forse in quella nicchia scavata dall’Azione cattolica per i suoi universitari si potevano coltivare gli studi lontano dagli echi di una guerra ormai imminente; si aspettava, senza essere costretti a schierarsi con o contro la «gente cattiva» del Parlamento fascistizzato. Giulio, però, si illudeva. La Fuci era tenuta d’occhio: dalla polizia ma anche dai vecchi «popolari». E in largo Cavalleggeri 33 avevano sede sia l’Azione cattolica sia il quindicinale della federazione degli universitari, «Azione Fucina», che usciva il venerdì e costava 30 centesimi. Ne era direttore Aldo Moro, presidente della Federazione universitaria dal 1939, un’altra creatura della Chiesa, di cui padre Agostino Gemelli, dopo averlo ascoltato alcuni anni prima a una conferenza a Bari, disse la fatidica frase: «Quel ragazzo farà parlare di sé», come ha raccontato Antonio Rossano nel suo libro L’altro Moro. Moro aveva due anni e mezzo più di Andreotti. Tanto Giulio era moderato, defilato e concreto in misura addirittura irritante, tanto Aldo era professorale, dotto, prolisso, appassionato alla politica. Ma entrambi apparivano solidi. Pur così diversi, si presentavano ai superiori come due «puledri di razza» che potevano servire la causa della Chiesa, e in prospettiva chissà che altro. Per i coetanei, invece, la gerarchia era differente: se c’era qualcuno destinato a diventare importante, quello era Aldo, non Giulio, così privo di slanci e glaciale. Eppure Giulio diventò presto il collaboratore più stretto di Moro. E all’improvviso, in modo un po’ traumatico, fece conoscenza con la politica. Lui, il cultore del «vivi e lascia vivere», il ragazzo studioso e senza grilli per la testa, si era sentito dare del perdigiorno mentre in modo innocentemente spensierato cercava alla biblioteca vaticana un’opera di tal padre Francesco Guglielmotti sulla marina pontificia. La flotta dei papi: era un argomento raffinatissimo quanto fuori dalla realtà, in quel 1938 segnato dall’aggressività nazista in Europa e dai prodromi di una guerra mondiale. Chiese il volume a una faccia austera, ossuta, intensa. Il bibliotecario, un uomo di mezza età, lo fulminò con gli occhi e con una reprimenda: «Ma lei non ha niente di meglio da fare?». Giulio ci rimase male, e gli rispose male. Pretese i libri e si calò sulla faccia la sua maschera impassibile; poi, a freddo, si rese conto che quelle parole lo avevano segnato. «L’incontro con quell’uomo, De Gasperi, fu una specie di scintilla» raccontò in seguito. La scintilla che gli era esplosa davanti così bruscamente si chiamava Alcide De Gasperi, ma Giulio non lo sapeva ancora. Da Guido Gonella e Renzo De Sanctis, giornalisti dell’«Osservatore Romano», apprese che era una persona importante, perseguitata dai fascisti e ospitata in Vaticano per sottrarla al carcere. Quando lo rivide un po’ di tempo dopo in casa di Giuseppe Spataro, in via Cola di Rienzo, per parlare e soprattutto ascoltare di politica, rimase a dir poco sorpreso. Ma l’incontro l’aveva spinto definitivamente verso la realtà politica di quei mesi. De Gasperi gli fece un’offerta di lavoro: collaborare al «Popolo», che sarebbe diventato l’organo della Dc e che allora si stampava clandestinamente. Per l’«indottrinamento», come lo definì Andreotti, gli consigliò di leggere il Codice sociale di Malines. Si trattava di un documento stilato dai cattolici belgi nel 1927 e rappresentava la sintesi del pensiero cattolico in materia economica e civile: una vera e propria bibbia del futuro interclassismo, né liberale né marxista, attenta al ruolo dei gruppi intermedi, dirigista quel tanto che bastava, e ostile alla «mano invisibile» del mercato come regolatrice dei rapporti economici. Quanto alla storia del Partito popolare di don Sturzo, l’avvocato Mario Scelba gli diede alcuni scritti del prete siciliano. Di eventuali reazioni vaticane non si doveva preoccupare. «Don Battista» gli disse De Gasperi, sapeva tutto. Parlava di Giovanni Battista Montini, il «monsignorino». Ma a sentire Andreotti, avrebbe accettato comunque. «Aveva un tale fascino, una tale capacità di convinzione. E la scintilla mi rivelò cose in cui credevo senza che mi rendessi conto di crederci, mi condusse quasi naturalmente alla scelta. Voglio dire: non mi sorse mai il dubbio di poter fare un’altra scelta: entrare nel Partito socialista, per esempio, o nel Partito liberale. Per carità, mai avuto tentazioni del genere» spiegò Andreotti a Oriana Fallaci nel 1974, sull’«Europeo». «Quanto ai comunisti, ero già certo della non conciliabilità fra comunismo e democrazia.» Il «Dott. Giulio Andreotti», orfano di guerra Morale: Andreotti si trovò proiettato in una nuova dimensione. Cambiò argomento alla sua tesi di laurea, scegliendo un tema di diritto canonico. E si buttò ancora di più a capofitto nella redazione di «Azione Fucina». Era il 1940, e Moro aveva dovuto lasciare di fatto la presidenza della Fuci. La «reggenza» era passata ad Andreotti, sebbene non ci fosse stata nessuna formalizzazione del cambio della guardia. Ormai era affidata a Giulio anche la fattura del quindicinale universitario. Moro si trovava a Bari, doveva andare sotto le armi. In largo Cavalleggeri, dopo il giovane professore dall’aria sofferta, additato da tutti come un intellettuale di sicuro avvenire, la Fuci si ritrovò quel «leopardiano slavato», nomignolo cattivo sussurrato alle sue spalle dai molti che non lo giudicavano per nulla simpatico. Era troppo metodico per i suoi vent’anni, di una cordialità distante. All’università dava gli esami con regolarità e solo qualche trenta. Alla fine ne collezionò sei: in filosofia del diritto, in diritto canonico, in diritto bizantino, in diritto marittimo, in diritto corporativo e in storia del diritto italiano. Tipici esami che gli studenti di legge danno per alzare la media. Ebbe un diciotto in scienza delle finanze, e se ne ricordò quando diventò ministro proprio in quel dicastero. Prese ventiquattro in storia del diritto romano, venticinque in diritto privato, ventisei in penale, ventotto in procedura penale, diritto romano e civile, ecclesiastico, e istituzioni di diritto romano; ventisette in economia e politica, in diritto commerciale, in costituzionale, in amministrativo, in procedura civile, in cultura militare e in diritto internazionale. Frequentò anche i corsi di diritto musulmano, papirologia giuridica e diritto coloniale, ma non diede mai gli esami. Molti dei suoi professori avevano nomi prestigiosi: Pietro De Francisci per la storia del diritto romano, Filippo Vassalli a diritto civile, Arturo Carlo Jemolo alla cattedra di diritto ecclesiastico, Guido Zanobini per amministrativo e corporativo, Santi Romano a diritto costituzionale, Arturo Rocco a penale. Come orfano di guerra, Andreotti era dispensato dal pagamento delle tasse. La sua corrispondenza con la segreteria dell’università era fatta di lettere dell’Opera nazionale per gli orfani di guerra, che certificava l’iscrizione di Giulio. All’inizio di ogni anno arrivavano stati di famiglia aggiornati, che radiografavano la povertà degli Andreotti. Dicevano che la signora Rosa era «pensionata di guerra con L. 240 al mese…». Oltre la professione hanno rendite? chiedeva l’amministrazione. «Non si conoscono» era la risposta. Il fratello maggiore Francesco risultava «impiegato al Governatorato di Roma con stipendio di L. 700 circa». E nella casa di via Bisagno 25 viveva anche «la moglie del fratello, Caterina Scattaretico, casalinga, nessun guadagno…». «L’iscritto» diceva la documentazione su Giulio, matricola universitaria 25308, «gode di una borsa di studio di L. 2000 annue del Comitato Orfani di Guerra.» All’apertura di ogni anno accademico arrivava la sua richiesta di esonero dalle tasse: precisa, educata, con gli «ossequi» e la «perfetta osservanza» alla fine. In una lettera, Giulio raccomandava «una cortese urgenza» alla segreteria della facoltà di Giurisprudenza, perché comunicasse i risultati degli esami all’Opera nazionale per gli orfani. Chiedeva i rimborsi delle tasse di laurea, ricordava che la pensione annua lorda della madre era di 6979 lire e 60 centesimi, e che i terreni a Segni davano 244 lire e 32 centesimi. La burocrazia fascista esaminava i redditi di quella famiglia piccolo- borghese con l’occhio severo e un po’ spietato dell’istituzione. Ed ecco che «con perfetta osservanza», Rosa Falasca vedova Andreotti era costretta a spiegare che «la famiglia non possiede beni immobili». Doveva elencare uno a uno «i terreni» posseduti in Ciociaria, e dimostrarne la pochezza. «I terreni iscritti al Catasto» dichiarò la signora Rosa «sono un tratto di coltivato a olivo e un tratto di coltivato a castagneto da frutto: per il primo tratto Andreotti Francesco e Giulio sono proprietari non di 8/18, ma di 4/18, gravando su tale terreno un debito di L. 6000 pari alla metà del valore reale. Per il terreno a castagno» continuava «si dichiara che vi grava un debito di L. 8000 pari all’attuale valore reale, come si può accertare consultando l’avv. Filippo Lombardini di Sezze di Littoria, che possiede tutti gli incartamenti, per richiedere al Tribunale dei Minorenni l’autorizzazione per stipulare il passaggio definitivo del terreno al creditore…» «Del resto» proseguiva la dichiarazione della signora «anche a voler prescindere da tali considerazioni, il reddito che Andreotti Francesco e Giulio ricaverebbero da tale proprietà se ne avessero il pieno uso, sarebbe talmente irrisorio che non può certamente influire sull’assegnazione del beneficio delle Tasse scolastiche…» Giulietto e Noretta Era una continua lotta con i soldi che mancavano, e segnavano il tenore di vita degli Andreotti. Ma quelle sofferenze avevano fortificato Giulio, l’avevano maturato. A poco più di vent’anni era, come si dice, un uomo formato, con la sua visione del mondo. Un mostro di autocontrollo, scettico e cauto quanto bastava per tirarsi addosso l’accusa di essere un burocrate, di non avere sufficiente vivacità intellettuale per dirigere «Azione Fucina». Quando Moro lasciò la presidenza della Fuci, i maligni dissero che «Giulietto», come lo chiamavano senza sottintesi affettuosi, gli aveva fatto le scarpe. In realtà, il passaggio delle consegne stava diventando obbligato. In una lettera scrittagli nel dicembre 1941, Moro diceva al «caro Giulio» di fare «i passi necessari per la mia sostituzione. Ritengo che questa sia la soluzione più saggia nell’interesse della Fuci, cui non giova certo che io ne sia di nome il presidente…». Se non altro, Andreotti non sarebbe andato al corso ufficiali. Era rimasto tre giorni all’ospedale del Celio, e l’avevano rinviato per l’evidente insufficienza toracica. Era stato destinato al Collegio militare di sanità, ottava compagnia, sesto plotone, e aveva ottenuto 300 lire al mese come «sussidio militare». «Lei ha ancora sei mesi di vita» gli comunicò alla visita di leva un ufficiale medico incauto. Sul quindicinale scriveva poco, si limitava a qualche articolo di critica cinematografica. Preferiva organizzare. Nel 1941 Pio XII aveva ideato un nuovo ufficio, la Segreteria militare, che aveva il compito di tenere i contatti con i fucini dispersi sui fronti di guerra. E Andreotti schedava, scriveva lettere di incoraggiamento, con l’accanimento di chi si sentiva in difetto per non essere a combattere come gli altri. Il 10 novembre 1941 si laureò con una tesi su «Il fine delle pene ecclesiastiche e la personalità del delinquente nel Diritto della Chiesa». Relatore: Pio Ciprotti. Ebbe 110/110. La media agli esami era stata di 27,36, alta per quei tempi di studi severi. Il quindicinale pubblicò la notiziola in ultima pagina sul numero successivo: «Il 10 corr. hanno conseguito la laurea in Giurisprudenza nella Regia Università di Roma, a pieni voti, il Reggente della Presidenza Centrale, Giulio Andreotti, e il Segretario Generale della stessa Presidenza, Giorgio Ceccherini». Il gemellaggio con Ceccherini continuava. Dopo aver discusso la tesi, Andreotti spedì alla segreteria della facoltà una lettera dove elencava minuziosamente le disfunzioni riscontrate a Giurisprudenza. Fu convocato dall’ateneo. Temeva un rimprovero, e invece gli offrivano un lavoro, che rifiutò. Il suo posto non era lì. L’università rappresentava una parentesi, seppure necessaria. Non chiese mai il diploma di laurea, ma il 26 novembre, sedici giorni dopo averla conseguita, scrisse al Magnifico Rettore una raccomandata con ricevuta di ritorno che diceva: «Il sottoscritto Andreotti Giulio fu Filippo, avendo conseguito il 10 novembre c.a. la laurea in Giurisprudenza con voti 110 e avendo riportato nei precedenti esami particolari una media superiore ai 27/30, chiede il rimborso della tassa di laurea, versata il 15 corrente nell’ufficio postale Roma 61 (ricevuta 28). A tale rimborso ha altresì diritto quale orfano di guerra…». «Orfano di guerra» era sottolineato. E perfino in quella raccomandata per l’università c’era la precisione spietata dell’archivista. Nel febbraio 1942 il nome del «DR. GIULIO ANDREOTTI» comparve proprio così, in maiuscolo, sulla prima pagina di «Azione Fucina». «La Commissione Cardinalizia per l’alta direzione dell’A.C.I.» si poteva leggere «in seguito alle reiterate istanze per essere esonerato avanzate dal Dr. Aldo Moro, trattenuto da vari mesi in servizio militare, ha deliberato di nominare in sua vece Presidente della Fuci il DR. GIULIO ANDREOTTI che fino a ora ha ricoperto la carica di Reggente…» A Moro fu dedicato un lungo e caloroso saluto sul numero del 25 febbraio, in apertura di prima pagina. Ma ormai era iniziata l’«era Andreotti»: due anni in cui «il Dottore» avrebbe assunto un ruolo di primissimo piano nel cuore del contropotere cattolico dal quale sarebbe nata la Dc. E guadagnava pure qualche lira, sotto forma di rimborso spese, che si aggiungeva allo stipendio di 700 lire al mese pagatogli dal catasto. Giulio passava alla madre 300 delle 700 lire. I suoi denigratori continuarono a dire che aveva messo da parte Moro, approfittando della sua lontananza. In quegli anni accentuò una esplicita antipatia di pelle nei confronti di «Giulietto» Eleonora Chiavarelli, detta Noretta: la futura signora Moro. Tra ragazzi e ragazze alla Fuci ci si dava del «Lei». E Noretta, attaccando «Giulietto», fu la più ardente contestatrice della linea troppo pacata di «Azione Fucina». Per questo suggerì come condirettore del quindicinale Ivo Murgia. Andreotti accettò, Murgia era un caro amico. Ma l’antipatia di Noretta non si placò. Se vedeva un articolo tagliato, andava a chiedere in giro se fosse stato per caso «Giulietto»: in caso di risposta affermativa, «povero lui», minacciava. I rapporti fra Andreotti e Pio XII, e con il cenacolo degasperiano, si fecero via via più intensi. Tra alcuni fucini, la sua fama di pragmatico-cinico aumentava in proporzione. Stava «crescendo», anche se era difficile accorgersene dall’esterno. Solo alcuni anni dopo, a guerra appena finita, sarebbero apparse le sue prime foto accanto a De Gasperi, e un suo amico del Tasso, Umberto Serafini, reduce da un campo di concentramento inglese in India, avrebbe commentato con un ex compagno di prigionia: «Hai visto? Andreottino fa carriera». In realtà la stava facendo da qualche anno. Rodano, Ossicini e Pio XII «Andreottino» aveva una freccia d’oro nel proprio arco: era stimatissimo da Pio xii. E per il pontefice lui nutriva un’autentica venerazione. Era affascinato da quella figura alta e sottile, ieratica, severa. Eugenio Pacelli ricambiava la disponibilità e la devozione del presidente della Fuci accordandogli grande fiducia e trattandolo con una confidenza invidiatissima. Giulio andava da lui senza appuntamento. Si sedeva in anticamera e aspettava. Una volta ha raccontato che usò quelle ore di attesa per scriversi la tesi. Ma quando il papa lo riceveva in udienza, rimaneva con lui sempre ben oltre i tempi stabiliti dal rigido cerimoniale vaticano: e i monsignori del protocollo si arrabbiavano. Era il leader dei giovani cattolici affiliati all’associazione che veniva definita «la pupilla del papa». Ed era anche un ragazzo attento a quanto si muoveva ai margini dei gruppi religiosi ufficiali. Costituiva un’antenna preziosa, intelligente e discreta, per captare i fermenti che affioravano nel mondo cattolico romano. Ce n’erano. C’era soprattutto la saldatura, avvenuta nel 1940, tra gli iscritti al circolo «Dante e Leonardo», come Adriano Ossicini e Paolo
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