Indice Copertina L’immagine Il libro L’autrice Frontespizio Copyright QUANDO IL MONDO DORME Introduzione ~ La solidarietà è una declinazione politica dell’amore? Hind ~ Cos’è l’infanzia in Palestina? Abu Hassan ~ Quali sono le conseguenze dell’occupazione? George ~ Cosa significa vivere a Gerusalemme? Alon ~ Come si fa a riconoscere una persona antisemita? Ingrid ~ Come si fa ad abbattere l’apartheid? Ghassan ~ Fino a che punto può arrivare la crudeltà di un genocidio? Eyal ~ Come calcolare le condizioni che portano alla distruzione di un popolo? Malak ~ Dov’è la casa di una persona rifugiata? Gabor ~ Perché è così importante preservare la memoria di un popolo? Conclusioni ~ Il vizio della speranza Ringraziamenti Bibliografia L Il libro o spirito di un luogo è faĴo dalle persone che lo abitano, dalle storie che si intersecano nelle sue strade. E questo vale in modo particolare per la Palestina, custode di passaggi storici epocali e teatro di una delle più dolorose pagine di storia contemporanea. Francesca Albanese, la Relatrice speciale ONU sul territorio palestinese occupato, una delle persone più competenti e autorevoli sullo status giuridico e sulla situazione dei palestinesi – amata (o odiata) in tutto il mondo per l’integrità e la passione con cui si batte in favore dei diritti di un popolo troppo a lungo vessato – qui ci offre storie che intrecciano informazioni, riflessioni, emozioni e vicende intime. Un viaggio scandito da dieci persone che hanno accompagnato Francesca a comprendere storia, presente e futuro della Palestina. Hind Rajab, morta a sei anni sotto le bombe che hanno distrutto Gaza, ci apre gli occhi su cosa significhi essere bambini in un Paese dove i bambini non hanno un nido che li protegga e che rispetti le loro radici. Abu Hassan ci guida tra i luoghi di fatica e sofferenza ai margini di Gerusalemme; e George, amico stretto, di Gerusalemme ci mostra meraviglia e insensatezze. Alon Confino, grande studioso dell’olocausto, ci aiuta a comprendere i contrasti che possono albergare nel cuore di un ebreo che vede l’apartheid e ne vuole la fine. Ghassan Abu-Sittah, chirurgo arrivato da Londra per entrare nel vivo dell’orrore più inimmaginabile, ci racconta ciò che ha visto; e Malak Mattar, giovane artista che ha fatto il percorso inverso, condivide la storia di chi ha dovuto lasciare Gaza per potersi esprimere o per sopravvivere. E poi Ingrid Jaradat Gassner, Eyal Weizman, Gabor Maté... fino a una delle persone più vicine a Francesca nella vita, così come nella ricerca di una consapevolezza capace di tradursi in azione. Dieci storie che si legano alle vite di molte altre, ponendoci le domande a cui è doveroso dare risposta: quali sono le conseguenze dell’occupazione? Dov’è la casa di una persona rifugiata? In che condizioni vive il popolo palestinese? Fino a che punto può arrivare la crudeltà di un genocidio? Domande a cui non possiamo sottrarci, legate a personaggi e luoghi che ci permettono di capire cosa è stata la Palestina fino al 7 ottobre 2023 e cosa è adesso. L’autrice Francesca Albanese è Relatrice speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato. Giurista, docente, studiosa, ha lavorato per l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani e l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi. In queste vesti, ha fornito consulenza alle Nazioni Unite, ai governi e alla società civile in Medio Oriente, Nord Africa e Asia-Pacifico. Nel 2020 ha pubblicato Palestinian Refugees in International Law e nel 2023 J’accuse. Francesca Albanese QUANDO IL MONDO DORME Storie, parole e ferite della Palestina Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi utilizzazione non autorizzata di questo ebook, anche per le finalità di alimentazione di sistemi di Intelligenza Artificiale, così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. 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In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.rizzoli.eu Quando il mondo dorme di Francesca Albanese Proprietà letteraria riservata © 2025 Mondadori Libri S.p.A., Milano Cura dei testi: Angela Lombardo Realizzazione editoriale: Studio editoriale Littera, Rescaldina (MI) I numeri di pagina si riferiscono all’edizione cartacea: p. 9: Salman Abu Sitta, La mappa del mio ritorno , Edizioni Q, Roma 2020, traduzione di Barbara Gagliardi, p. 9; p. 31: Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno , Mondadori, Milano 2012, ed. dig.; p. 56: Mohammed El-Kurd, Rifqa , Fandango Libri, Roma 2022, traduzione di Emanuele Bero, p. 76; p.137: Elio Vittorini, Uomini e no , Mondadori, Milano 2014, ed. dig.; p. 181: Anna Politkovskaja, Per questo , Adelphi, Milano 2009, traduzione di Claudia Zonghetti, ed. dig.; pp. 188-189: Eyal Weizman, Spaziocidio , Mondadori, Milano 2022, traduzione di Gabriele Oropallo, pp. 11-12; p. 203: Edward W. Said, Sempre nel posto sbagliato , Feltrinelli, Milano 2009, traduzione di Adriana Bottini, ed. dig.; p. 249: Refaat Alareer (a cura di), Gaza Writes Back , Lorusso Editore, Roma 2019, traduzione di Luigi Lorusso (collaborazione di Valentina Iacoponi), pp. 19-20; p. 251: Samih al-Qasim, Versi in Galilea , a cura di Wasim Dahmash, Edizioni Q, Roma 2005; pp. 254-255: Thich Nhat Hanh, La pace è ogni passo , Astrolabio-Ubaldini, Roma 1993, traduzione di Letizia Baglioni, pp. 83-84. Pubblicato per Rizzoli da Mondadori Libri S.p.A. Ebook ISBN 9788831819442 COPERTINA || LAST NIGHT IN GAZA © MALAK MATTAR | ART DIRECTOR: STEFANO ROSSETTI | GRAPHIC DESIGNER: DAVIDE CANESI / PEPE NYMI QUANDO IL MONDO DORME Per la prima volta, mi sento veramente indignata. Indignata per l’indifferenza. La violenza di questo genocidio, il modo in cui è entrato nella nostra quotidianità e la consapevolezza che alcuni non ne sono toccati per niente, mentre altri sono stati devastati. Pensare che mi trovo di nuovo di fronte a funzionari di Paesi che – tutti insieme e qualcuno più degli altri – potrebbero fermare tutto questo. Basterebbe un colpo di penna. Mi sento indignata e delusa, come spesso mi capita in questa sala, vedendo molti di voi che continuano a recitare lo stesso copione. Naturalmente condanniamo l’attacco di Hamas. Naturalmente esprimiamo solidarietà alle vittime israeliane. Naturalmente chiediamo il rilascio degli ostaggi. Ma è possibile che dopo l’uccisione di quarantaduemila persone a Gaza ci sia ancora qualcuno che non riesce a empatizzare con i palestinesi? Ecco: chi di voi oggi non ha detto neanche una parola su quello che sta accadendo a Gaza dimostra che l’empatia è svanita da questa sala. L’empatia è il collante che ci rende uniti come umanità. E non è una questione di carità nei confronti dei palestinesi. È una questione che riguarda il rispetto delle vostre funzioni, che comporta anche l’obbligo per i vostri Stati di garantire con fermezza l’applicazione della Convenzione sul genocidio per prevenire questo crimine. E quindi, se è vero che oggi siamo qui con l’intenzione di onorare il diritto internazionale, non c’è altro modo che imporre sanzioni a Israele, rivedendo i legami diplomatici, economici, politici, militari e strategici che intratteniamo con questo Stato. E che questo possa essere l’ultimo genocidio nella storia dell’umanità. Francesca Albanese, estrapolazioni dall’intervento all’Assemblea generale ONU, 30 ottobre 2024 Introduzione La solidarietà è una declinazione politica dell’amore? Sono diventato profugo a dieci anni. Nella mia testa di bambino mi interrogavo sul nemico invisibile che mi distruggeva la vita. Che aspetto aveva? Era un essere umano o una bestia? Perché mi aveva reso profugo? Cosa gli avevo fatto? Da dove veniva? Che lingua parlava? SALMAN ABU SITTA , La mappa del mio ritorno Negli ultimi tempi mi sono ritrovata molto spesso a ripensare a Orwell. Il suo famoso proclama, secondo cui «la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza», non mi è mai parso così attuale e pertinente come nel dibattito di questi mesi su Israele e Palestina. Molti, per esempio, continuano a parlare di quello che sta succedendo a Gaza come di un «conflitto». O, peggio ancora, di un conflitto cominciato il 7 ottobre 2023. In questa lettura c’è tutta la superficialità di chi inizia un libro a metà, ignorandone tante pagine che custodiscono vivide tracce di sangue e dolore: una storia che in realtà affonda le sue radici ben più lontano e che continua a rimanere ignorata. Così come rimane ignorato e sordo il richiamo alla giustizia che il popolo palestinese sostiene da quasi un secolo, per il regime di apartheid che lo opprime da generazioni e lo strazio assurdo di quello che sta accadendo dalla fine del 2023 e continua ad accadere anche dopo il supposto cessate il fuoco tra gennaio e marzo 2025: un genocidio in piena regola. L’orrore di Gaza è senza precedenti. Quando dico che Israele sta scrivendo una delle pagine più nere della storia, paragonabile ai genocidi del passato, molti mi rispondono che non lo sappiamo ancora con certezza, che bisogna aspettare il verdetto della Corte internazionale di giustizia. Ma la Corte – l’organo volto a dirimere le controversie tra gli Stati e fornire pareri consultivi su questioni di diritto internazionale – ha affermato già a gennaio 2024 il rischio di genocidio, ordinando agli Stati di intraprendere azioni che fermassero gli atti genocidari di Israele. Molti Paesi però sembrano non capirlo, o volutamente ignorarlo. Il trattato internazionale si chiama Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio: come possono gli Stati prevenirlo, se non agendo prontamente quando se ne presenta il rischio (come d’altronde afferma la Corte di giustizia)? E anche lasciando da parte l’aspetto legale, com’è possibile non esprimersi di fronte ad atrocità di questa spietatezza? Quando mi sono trovata a Berlino nel maggio 2024, poche settimane dopo aver presentato all’ONU il rapporto «Anatomia di un genocidio», ero ancora una voce fuori dal coro nel denunciare in questi termini i crimini di Israele in corso a Gaza. Escludendo il procedimento pendente avviato dal governo sudafricano presso la Corte internazionale di giustizia nel dicembre 2023, con l’accusa che Israele stesse commettendo atti di genocidio contro la popolazione palestinese a Gaza, non c’era praticamente altra letteratura in proposito. Qualche studioso illustre, come lo storico Raz Segal, ne aveva parlato immediatamente dopo il 7 ottobre, ma erano voci isolate. Anche un altro noto storico israeliano, Ilan Pappé, già nel 2006 denunciava le pratiche israeliane nella Striscia di Gaza come un incremental genocide : un genocidio che gradualmente aggrava la sua violenza e la sua intensità. Eppure all’interno delle Nazioni Unite nessuno osava pronunciare quella parola proibita nei confronti di Israele. Nessuno tranne me e alcuni altri Relatori e Relatrici ONU, soprattutto quelli provenienti da Paesi della Maggioranza globale (o Sud globale), per molti dei quali è ancora vivo il trauma della colonizzazione e dei genocidi che gli europei hanno perpetrato nel corso di mezzo millennio dall’America Latina all’Africa all’Asia. «Anatomia di un genocidio» era stato il primo rapporto a fornire alle Nazioni Unite un’articolata denuncia del fatto che le operazioni militari israeliane nella Striscia rivelassero l’intenzione di annientare Gaza in quanto tale, di distruggere tutto. A Berlino, dove mi aspettava un ciclo di incontri e conferenze, sono stata accolta con grande interesse dalla società civile e dalla comunità dei think tank tedeschi. Meno di un anno dopo, l’accoglienza in Germania per un nuovo ciclo di eventi pubblici si è rivelata molto diversa. Oggi sono tantissime le voci che supportano la mia interpretazione dei fatti e la loro qualificazione giuridica come genocidio, occupazione illegale, colonialismo di insediamento e apartheid, tra gli altri illeciti imputabili allo Stato di Israele. Però la repressione nei confronti del messaggio che porto, delle mie funzioni e della mia persona è cresciuta senza precedenti, come l’intolleranza nel dibattito sulla questione israelo-palestinese. Quindi, che cosa è cambiato? Subito prima di arrivare in Germania, a febbraio 2025, i due eventi universitari ai quali dovevo partecipare nel Paese sono stati cancellati sotto pressioni politiche. Il primo – una lezione all’Università di Monaco – è stato annullato immediatamente. Tuttavia, grazie agli studenti, sono riuscita comunque a tenere la lezione in un centro di accoglienza per rifugiati che non dipende dal governo, ma si sostiene con fondi privati e ha un direttore coraggioso che non ha ceduto alle pressioni. Anche all’Università di Berlino avrei dovuto tenere una conferenza insieme a Eyal Weizman, un esperto israeliano di architettura forense; però, quando siamo arrivati, l’università aveva già cancellato l’evento pubblico. Hanno proposto di farlo a porte chiuse, ma abbiamo rifiutato; non avrebbe avuto senso essere andati fin lì per tenere un incontro che poteva essere seguito solo online. Alcuni professori e gli studenti sono riusciti a spostare l’evento in un centro culturale che poteva ospitare fino a seicento persone (anche se a quel punto c’erano già milleduecento iscritti). Però l’ambasciatore israeliano, la polizia, vari politici, un ministro e altre figure istituzionali hanno fatto ulteriori pressioni: dopo aver spinto l’università ad annullare la conferenza, hanno minacciato di revocare le sovvenzioni al centro culturale se avesse davvero accettato di ospitare l’evento. Di fronte al rischio di dover chiudere per assenza di fondi, il centro ha ceduto; salvo comunque ritrovarsi, la mattina successiva, i muri imbrattati dalle scritte dei soliti gruppi pro-Israele: ALBANESE ANTISEMITA, ALBANESE TERRORISTA , con insulti contro di me e contro le Nazioni Unite. Alla fine l’evento si è tenuto lo stesso, ma nella sede del giornale «junge Welt», dove c’era posto solo per cento persone. Fuori c’era tantissima gente ammassata. Nel frattempo, la polizia aveva circondato l’edificio di agenti in tenuta antisommossa, con manganelli e mitragliette in bella vista: è in questa cornice che Eyal Weizman e io abbiamo parlato di pace per un popolo che sta soffrendo. In Germania, come in altre parti d’Europa e in modo sempre più spudorato negli Stati Uniti, la repressione ha assunto toni estremamente violenti. Nei mesi scorsi ho avuto modo di leggere molte volte di cariche della polizia nei confronti di studenti e di chi manifesta insieme a loro, e talvolta di assistere a queste scene con i miei occhi. Le forze dell’ordine picchiano, bastonano, incarcerano persone di ogni età e nazionalità: in primis, palestinesi ed ebrei antisionisti. Il dramma è doppio. Non solo queste persone si battono per fermare dei crimini atroci, ma lo fanno esercitando il loro sacrosanto diritto di critica e dissenso; un diritto che fa da corollario a una libertà d’espressione ancora più fondamentale e che dovrebbe rappresentare uno dei baluardi delle nostre cosiddette democrazie liberali. In cosa consiste la democrazia, se non ci può essere spazio per il dibattito? Delle persone dei think tank che avevo incontrato a Berlino l’anno precedente, questa volta non si è presentato nessuno. Dei diciotto delegati delle ONG, sono venuti solo in tre. Poi, la sera prima dell’evento nella sede di «junge Welt», c’è stata la minaccia di arresto. La polizia federale tedesca ha contattato le organizzazioni promotrici perché mi avvisassero di non presentarmi, altrimenti avrei potuto essere arrestata per violazione delle leggi tedesche sull’antisemitismo. Dopo una notte quasi insonne, alle sei del mattino ho chiamato Max, mio marito, e gli ho detto: «Non so cosa devo fare, Max... Io so che sto facendo la cosa giusta, ma non voglio essere arrestata, non vedo i bambini da venti giorni». Lui mi ha risposto, serafico: «Tu vai tranquilla e fai quello che devi fare. Noi siamo qui». Così sono andata. Ma è dovuta intervenire l’ONU, ricordando alla polizia tedesca che in quanto Relatrice delle Nazioni Unite godo dell’immunità diplomatica, e che un mio arresto sarebbe stato uno scandalo senza precedenti. Solo così si sono calmati, ma comunque l’evento si è tenuto praticamente sotto assedio: oltre alla ventina di camionette fuori dalla sede del giornale, poliziotti in tenuta antisommossa gremivano la sala. Sono arrivata con il sorriso, facendo finta di niente; quando sono salita sul palco, avevo il cuore colmo di indignazione, ma questo non mi ha impedito di esprimermi in modo chiaro e preciso. Alla fine dell’evento, Michael Barenboim, violinista e professore alla Barenboim-Said Akademie, ha suonato con dei violinisti palestinesi. È stato bellissimo. E il giorno dopo Melanie Schweizer, una funzionaria del governo tedesco che aveva partecipato all’evento, già sospesa per la sua posizione critica nei confronti delle politiche israeliane, è stata licenziata. Questo è il livello della repressione che si respira oggi in Germania. *** La crisi a Gaza è ormai sintomo di una crisi globale, come diceva già un anno fa la mia collega Irene Khan, Relatrice speciale delle Nazioni Unite per la promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione e di espressione. Penso sempre più spesso che tutto questo, pur dovendo incutere paura, deve anche infonderci coraggio. Il sistema che reprime i palestinesi – un’alleanza ben collaudata tra Israele e tutti gli altri Stati le cui élite gli garantiscono l’impunità di cui gode da sempre – è lo stesso al quale apparteniamo noi. È il sistema che decide al posto nostro su questioni determinanti della vita di tutti noi, senza necessariamente ascoltarci e rappresentarci; quello che trasforma il lavoro in precariato e i diritti in privilegi, che fa in modo di alienarci gli uni dagli altri, rendendoci tutti più fragili e insicuri; che considera la solidarietà un atto sovversivo e l’empatia una forma di disfunzione mentale e sociale. Sono meccanismi subdoli, che un giorno dopo l’altro contribuiscono a disintegrare i legami e compromettere la nostra capacità di agire insieme per una causa giusta, dall’ambiente alla Palestina, passando per i lavoratori precari e le questioni di genere. Spesso mi è capitato di riflettere sul fatto che per me la Palestina è stata la pillola rossa di Matrix , quella che ti apre gli occhi sulla realtà nascosta delle cose. Il mio lavoro, tutto lo studio di questi anni sulla questione palestinese, mi ha aiutato a vedere e capire meglio il sistema in cui viviamo. E, in un modo controintuitivo, a continuare ad amarlo. Nell’ultimo periodo ho compreso davvero il valore del coraggio che serve per contrastare gli ingranaggi del sistema. Ho avuto tantissime occasioni per osservare e farmi delle domande, durante mesi di incessanti viaggi nei quali ho incontrato una moltitudine di volti e storie: rappresentanti delle autorità, membri della società civile, studiosi e intellettuali, lavoratori, sindacati e, soprattutto, tantissimi studenti e persone comuni. Gente speciale che cerca parole utili e importanti, che desidera trovare speranza da scambiarsi e condividere. Mi è accaduto negli Stati Uniti, in Australia, Nuova Zelanda, Spagna, Norvegia, Danimarca, Olanda, Portogallo, Egitto, Giordania, Canada e, tante volte, in Italia. Persino in Belgio, dove la presenza delle istituzioni europee – talvolta più legate alla burocrazia che all’efficacia del risultato – spesso rende l’aria particolarmente greve. Un lungo viaggio che mi ha permesso di cogliere l’impulso trasversale di tante comunità in cerca di giustizia, di verità, di dignità e di un futuro migliore, al di sopra delle differenze. Nel mettere insieme le pagine del libro che hai tra le mani, circondata fisicamente e virtualmente da tutti questi compagni e compagne di viaggio, ho scelto quindi di dedicare a dieci persone a me care il racconto dei temi che considero fondamentali per comprendere la storia, il presente e il futuro della Palestina. Queste dieci persone, con il loro insegnamento, la loro testimonianza e talvolta anche la loro presenza, hanno accompagnato il mio percorso di conoscenza attraverso una terra che soffre da troppo tempo. Sarà dunque George, uno degli amici più stretti degli anni in cui io e mio marito Max vivevamo a Gerusalemme, a introdurci alle vie della città da una parte e dall’altra, tra le meravigliose case di un tempo, le librerie dove oggi i libri per bambini vengono sequestrati dai militari israeliani e i locali dove, fino a qualche anno fa, poteva capitare di andare a ballare a fianco degli stessi ragazzi israeliani, in questo caso senza divisa. Sarà Ingrid, una donna europea che ha scelto la Palestina e che alla Palestina ha dato tanto, a spiegarci l’importanza di un certo rigore nel pensiero e dell’uso del quadro giuridico dell’apartheid, così come lo ha reso chiaro a me nel 2017. Sarà Eyal, che ha lasciato Israele da tempo e sente di non avere il diritto di farvi ritorno finché non potrà viaggiare con un passaporto palestinese, e cioè di uno Stato unico e democratico, a illuminare la complessità delle condizioni fisiche e materiali che generano un genocidio. Sarà Hind, morta a sei anni per la colpa di essere palestinese, ad aprirci gli occhi su cosa significhi essere bambini in un Paese dove da generazioni i minori non hanno diritto ad avere un nido che li protegga e che rispetti le loro radici. Sarà Gabor, segnato precocemente dalle persecuzioni contro gli ebrei, a illuminarci sulla follia di ciò che sta accadendo al popolo palestinese e sul mito della normalità. E poi Ghassan, il chirurgo che è arrivato da Londra per entrare nel vivo dell’orrore più inimmaginabile di Gaza nei primi mesi dell’assalto genocida; Malak, la giovane artista che ha fatto il percorso inverso, lasciando Gaza per andare a Londra a raccontare in pittura il suo popolo; Abu Hassan, che di quel popolo ci ha guidati a vedere i luoghi che ne svelano la fatica e l’oppressione; Alon, grande studioso di genocidio e amico prezioso, che mi ha aiutata a comprendere più da vicino i contrasti che possono albergare nel cuore di un ebreo israeliano che «vede» i palestinesi e sente come propria la loro causa: perché nella liberazione del popolo palestinese dall’oppressione dell’apartheid c’è la chiave per la liberazione degli stessi israeliani; fino a una delle persone a me più vicine, nella vita così come nella ricerca di una consapevolezza che possiamo essere capaci di tradurre in azione. Dieci persone, dieci storie che si intrecciano alle vite e ai volti di molti altri – compresa me, i miei familiari, la commessa di un negozio irlandese o i bambini che venivano a mangiare i gelsi davanti a casa nostra a Gerusalemme –, ponendoci dieci domande a cui oggi sembra troppo difficile dare una risposta. Per esempio: in quali condizioni vive il popolo palestinese? Quali sono le conseguenze dell’occupazione? Dov’è «casa» per una persona rifugiata? Cosa significa essere antisemiti all’interno di battaglie per i diritti umani? Fino a che punto può arrivare la crudeltà di un genocidio? Oggi non possiamo sottrarci a queste domande. E, in conseguenza di ciò che sta accadendo, dentro di me ne nascono ancora di nuove. Per esempio: perché continuare a scrivere di Palestina in un Paese come l’Italia, dove è tanto necessario quanto difficile far sentire voci che espongano i fatti e ne spieghino gli aspetti giuridici in modo disteso? Nonostante il mio ruolo istituzionale, e nonostante io non abbia mai fatto nulla che potesse rendermi invisa ai media italiani, sono stata bersaglio di offese senza fine ed esclusa, salvo qualche rara eccezione, dal panorama mediatico nazionale. Allora l’unica risposta che riesco a darmi è questa: poiché la necessità di parlarne non passa, anzi si fa sempre più pressante, io scelgo di cogliere ogni occasione possibile per farlo, compreso questo libro. Sviluppando in questo momento terribile il germe di un’idea che mi ronzava in testa già da anni, quella di scrivere un libro di «Polaroid da Gerusalemme», qui voglio anche raccontare la Palestina così come l’ho vissuta: non da attivista, ma da persona che all’inizio vi si è avvicinata con curiosità culturale e, in seguito, con uno sguardo giuridico. Quando nel 2005 sono arrivata alla SOAS, la School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra, una delle poche istituzioni accademiche europee in cui si affrontano i temi del diritto, dei diritti umani e della decolonialità da una prospettiva critica e non eurocentrica, ho scoperto due cose fondamentali. La prima, che la Palestina poteva – e doveva – essere discussa come una questione giuridica di illegalità protratta, istituzionale e sistemica, e non semplicemente come un tema politico con rivendicazioni contrapposte. C’era molto altro che non veniva detto: e quel non detto ha cominciato a starmi stretto, perché autorizzava anche persone che non avevano mai messo piede in Palestina a esprimersi, spesso in modo superficiale e applicando due pesi e due misure nel valutare le parti in causa. La seconda scoperta è stata l’incontro con gli studi legali influenzati dalla critical race theory : un modo di intendere il diritto in chiave critica e decoloniale, inquadrandolo nell’evoluzione storica non necessariamente scritta dai vincitori, ma osservata dalla prospettiva dei popoli che il diritto internazionale – così come è stato formulato soprattutto dai Paesi occidentali – l’hanno dovuto subire, fino a tempi recenti. Nel 2010 sono andata a vivere in Palestina con mio marito Max, come funzionaria internazionale, e ci sono rimasta fino alla fine del 2012. Poi ho continuato a occuparmene da accademica. Ed è in virtù di questo percorso che ho ricevuto il mandato di Relatrice speciale delle Nazioni Unite, che cerco ogni giorno di onorare mostrando che i punti chiave del diritto, in fondo, sono e devono essere comprensibili a chiunque, perché riguardano ciascuno di noi. Il diritto internazionale di cui mi occupo come Relatrice speciale consiste semplicemente nell’insieme di norme che gli Stati si danno per regolare i loro rapporti: diritti, doveri, obblighi reciproci. Poi ci sono i diritti delle persone, i diritti umani, che rappresentano la nostra protezione: i nostri scudi e, se serve, le nostre spade. Il desiderio che mi anima è quello di poter articolare e spiegare quanto sia palese l’ingiustizia nella vita quotidiana dei palestinesi. Un desiderio che attraversa profondamente anche le pagine di questo libro. Un libro nato nell’epoca di un genocidio che ha mostrato al mondo la sua brutalità, e scritto sotto una grandissima pressione. Ero convinta che, a seguito di tutte le assurde pressioni di attori influenti contro di me, il Consiglio per i diritti umani non mi avrebbe rinnovato l’incarico. E invece il Consiglio continua a riporre in me la sua fiducia, e l’uscita del libro coinciderà con l’inizio del secondo mandato da Relatrice speciale per il territorio palestinese occupato, che mi permetterà di occuparmi ancora di questi temi ormai intrecciati in modo strettissimo, indistricabile, con la mia stessa vita, proprio adesso che il presente, il futuro e perfino il passato di questo popolo si trovano più che mai in pericolo. In Palestina – dopo cinquantasette anni di occupazione militare di Gaza e della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e dopo settantasette dall’inizio della pulizia etnica che ebbe il suo picco storico con la Nakba, l’esodo forzato dei palestinesi iniziato nel 1948 con la nascita di Israele – il genocidio che Israele sta commettendo viene perpetrato con la consapevolezza e il beneplacito del potere costituito, quello che finora ha mantenuto tutti soggiogati con la minaccia della ritorsione. Gli Stati Uniti, sotto la presidenza Trump, hanno più volte lasciato intendere che chiunque osi toccare Israele dovrà «vedersela con loro». Un linguaggio minaccioso, che non si addice alla politica come l’abbiamo conosciuta finora, ma che è del tutto coerente con la sostanza di quanto dichiarato dallo stesso Trump, quando ha affermato che «a tutti quelli con cui ho parlato piace l’idea che gli Stati Uniti siano proprietari di quel pezzo di terra », riferendosi alla Striscia di Gaza. In questa frase c’è tutta la violenza del potere senza freni, che può ottenere tutto attraverso la forza, perché, come un Caligola del Ventunesimo secolo, si considera al di sopra delle leggi. Anzi, le leggi non le vede neppure. Ebbene, è proprio giunto il momento di vedersela , con gli Stati Uniti e non solo: per noi «occidentali», soprattutto per noi europei, questa è l’occasione per sciogliere i nodi del passato coloniale e cominciare a saldare il nostro debito. È tempo di schierarsi contro la devastazione di Gaza e ciò che resta della Palestina, e di lottare contro un sistema internazionale fondato sull’uso della forza in nome di una cosiddetta «pace», evocata sempre a vantaggio di pochi e sempre usando le parole per mistificare la realtà di ciò che viene commesso, esattamente come profetizzava Orwell quasi un secolo fa. Oggi il concetto del «bispensiero» propugnato dal Ministero della Verità che lui aveva immaginato in 1984 – strumento fondamentale per il controllo mentale esercitato dal regime totalitario descritto nel romanzo – non ci appare più così fantasioso, e anzi ci invita ad aprire gli occhi per vedere ciò che abbiamo davvero di fronte. Anche per i più sofisticati esperti di doppio linguaggio, non è più possibile negare la verità che riguarda la Palestina. Nel luglio 2024 la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto al di là di ogni ragionevole dubbio che l’occupazione mantenuta da Israele a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est dal 1967 è illegale e deve essere abbandonata totalmente e incondizionatamente. L’occupazione è illegale perché, con la sua stessa presenza, impedisce ai palestinesi di godere del diritto all’autodeterminazione: il diritto di un popolo a esistere e a determinarsi, cioè a scegliere per sé, senza controllo straniero sul territorio e sulla vita dei palestinesi che lo abitano. Eppure, questo semplice diritto a esistere come popolo e vivere in libertà viene ancora contestato da qualcuno o pericolosamente confuso con la soluzione dei due Stati. Ma non credo che serva essere giuristi per capire che ogni altro diritto perde di significato e diventa un esercizio di mera retorica intellettuale, senza quello all’autodeterminazione. Ciò che si sta consumando a Gaza, e nelle altre aree della Palestina sottoposte al controllo illegale di Israele, incluse la Cisgiordania e Gerusalemme Est, è un colonialismo di insediamento attraverso un’opera di distruzione totale, metodica e pianificata. A Gaza questo processo è già una realtà tangibile e la distruzione investe la vita fisica e biologica in ogni sua forma, annientando tutto quello che esiste, inclusi naturalmente gli esseri umani che ci vivono (anzi, vivevano). In Cisgiordania – dove le colonie per soli ebrei sono una presenza pervasiva in continua espansione, attorno ai luoghi in cui i palestinesi vivono sempre più segregati –, se si è al riparo da bombardamenti a tappeto come quelli che hanno devastato larga parte di Gaza, non lo si è dalla distruzione a mezzo di esplosivi e demolitori meccanici, che assieme alla violenza dei coloni investe case, scuole, interi quartieri, fino agli uliveti e alle arnie delle api. Non c’è pace in Palestina, se sei palestinese. La sicurezza in quella terra – e non solo, purtroppo – è a senso unico; se sei palestinese, viene invocata solo per reprimere la tua libertà. Per punirti. *** Mentre ci trovavamo a Berlino, Eyal Weizman mi ha raccontato che degli amici di Gaza gli avevano confidato che, di fronte alla penuria di pane, le famiglie della zona di Deir al-Balah si erano organizzate per proteggere le poche risorse disponibili. «Dobbiamo mettere delle guardie di sicurezza a sorvegliare il pane e la farina» si sono dette. I soldati israeliani hanno chiamato al telefono il proprietario del panificio intimandogli di mettere fine a quella pratica: «Se non rimuovete questi addetti alla sicurezza, bombarderemo voi, il panificio e pure gli addetti alla sicurezza». Che senso ha tutto questo? Oggi non è raro imbattersi in argomentazioni come: «Eh, però Israele non vuole mica distruggere i palestinesi. Israele vuole solo sradicare Hamas», oppure: «Vuole liberare gli ostaggi. Se solo Hamas li liberasse...». A queste persone vorrei far notare che innanzitutto, se si arriva a bombardare un panificio, se si arriva a uccidere decine di migliaia di bambini, a mutilarne e lasciarne orfani dieci volte tanti, è evidente che le azioni non siano in linea con i motivi dichiarati di liberare gli ostaggi o eliminare Hamas, per quanto pericolosamente vago possa essere un proposito del genere. In fondo, basta pensarci un attimo: chi è Hamas? Chi combatte, o chi lo ha votato nel 2006? Chi lavorava negli ospedali sotto la sua autorità? Chi resiste all’occupazione? Chi si oppone al genocidio? Questo tipo di motivazioni potrebbero pure esistere sul serio, nella mente dei leader israeliani o delle centinaia di migliaia di soldati, spesso giovanissimi, che ne eseguono gli ordini. Ma è molto importante comprendere che non hanno nulla a che fare con quello che, nell’identificazione del crimine di genocidio, si chiama «intento», o in gergo legale mens rea . L’intento di distruggere va inteso come determinazione a distruggere: quando viene concepita e formulata l’idea distruttrice nei confronti di un gruppo in quanto tale , quali che ne siano i motivi – fosse pure una presunta legittima difesa –, si è in aria di genocidio. Il genocidio è un crimine gravissimo, al quale nell’epoca attuale non si dovrebbe proprio poter arrivare, viste le garanzie e i meccanismi preventivi che esistono nei vari ordinamenti giuridici, sia nazionali sia internazionali. Invece è esattamente quello che è stato commesso da Israele, ordito dai suoi leader ed eseguito dai suoi soldati, con la complicità di troppi politici occidentali e con l’odiosa connivenza dei media mainstream, che hanno negato, annacquato e trasfigurato la realtà perché non si turbassero i diktat delle ambasciate israeliane e dei potentissimi network a sostegno di Israele, «ultima frontiera dell’Occidente». La distruzione di un gruppo in quanto tale, quando non è casuale, un mero «incidente di guerra», per quanto brutale questo possa essere, ma intenzionale, costituisce genocidio. Questa distruzione intenzionale è stata praticata sul corpo, sulla vita collettiva, sullo spirito dei palestinesi; sulla loro pelle. Gaza ne è stata il teatro, certamente il più feroce. Il più orribile. Mi fa paura una società in cui l’uccisione, la mutilazione, la tortura, lo stupro, la fame, la carestia fanno notizia a seconda di chi ne sia la vittima e chi l’artefice. E su questo mi sono interrogata tante volte, durante gli anni da Relatrice speciale, in cui mi è capitato spesso di ritrovarmi al centro di discussioni sul significato di «imparzialità». Quando sono in gioco vite umane, l’imparzialità diventa un dovere che ci costringe a metterci dalla parte del diritto, della giustizia e delle vittime. Essere imparziali significa avere il coraggio di difendere ciò che è giusto, di dare voce a chi è stato messo sotto silenzio o viene semplicemente ignorato, e di lottare contro i soprusi che martoriano il nostro mondo. L’imparzialità non consiste nel fingere di non avere un’opinione di fronte a delle atrocità, o nel presumere di dover mantenere una posizione equidistante tra due parti in contrasto, anche se le loro posizioni sono strutturalmente e storicamente ineguali e quando c’è una parte che occupa, depreda e opprime mentre l’altra viene occupata, depredata e oppressa, innescando disastrosi meccanismi di violenza. Com’è possibile che la verità sia diventata menzogna e la menzogna verità? A questo male dilagante, che ci vorrebbe tutti avvinti o semplicemente vinti, dobbiamo rispondere con consapevolezza e azione. Il sapere è un’arma fondamentale, perché la conoscenza rappresenta la migliore difesa contro la manipolazione, lo sfruttamento e l’inganno; e l’azione dovrebbe scaturirne in modo naturale. Ma quindi in che modo può esistere una possibilità salvifica per tutti noi, per i palestinesi come per gli israeliani? Io la vedo. Fosse anche solo con gli occhi della mente, ma la vedo, e vedo pure la forma del percorso che ci porta fin lì. In più, so che questa visione è veramente condivisa: tutte le persone che dall’inizio del genocidio hanno riconosciuto in me una speranza, una luce, un punto di riferimento, mi hanno dato una forza che non avrei mai immaginato. Nonostante le querele, le minacce di morte, la paura che qualcosa possa ritorcersi contro ciò che di più caro hai al mondo, lottare per una causa giusta è un comando al quale alcuni di noi non sono equipaggiati per disobbedire. Credo moltissimo nella possibilità di ritrovarsi insieme come famiglia umana, riscoprendo il vero e profondo significato della solidarietà; il termine latino solidum implica proprio l’idea di un «tutt’uno»: qualcosa di intero, indiviso, completo, spesso in opposizione a ciò che invece è frammentato o spezzato. E così, come un unico corpo, dovremmo riuscire a unirci, incontrarci e resistere. La solidarietà, in questi termini, diventa una «declinazione politica dell’amore», come ha saggiamente osservato la rabbina americana Alissa Wise. Da soli siamo fragili come le ali di una farfalla, ma uniti – solidi e solidali – possiamo fare una tempesta. Non è un’iperbole fantasiosa, è un principio della fisica che si chiama butterfly effect . Ogni nostro più piccolo gesto è un battito d’ali che innesca una catena di conseguenze: come quello di Mary, una delle tante commesse di uno dei tanti negozi di una città irlandese. Come possiamo credere che la sua scelta, se passare o non passare alla cassa i pompelmi acquistati da una cliente, possa incidere a lungo termine sull’abbattimento dell’apartheid in un Paese lontano da lei come il Sudafrica? Eppure dobbiamo crederci, perché la storia ci insegna che questo può succedere. È nell’interconnessione delle lotte per l’emancipazione e la libertà – individuale o collettiva – che dobbiamo ritrovare il nostro solidum . Insieme, possiamo affrontare qualsiasi sfida. Quindi battiamo le ali, facciamo la tempesta, anzi, come si dice dalle mie parti, facciamo ammuìna ! Buona lettura, Francesca Albanese