Falena di Fabio Piscicelli Fuori per le strade, al tramonto, con i lampioni agli angoli che lampeggiavano per la veglia della notte. Guardò a destra e vide l’acciottolato che voltava nella vecchia parte del quartiere; un sentiero di lucidi gusci neri, imperlati nella sottile pioggia di marzo. Ancora gli sembrava l’ ammasso di tartarughe fossilizzate che aveva immaginato da piccolo, ma senza la meraviglia che aveva suscitato allora. Fece un respiro profondo e sentì riempire i polmoni come vesciche di stagnola, crepitanti a ogni esalazione. Spingendosi lungo il corso, incrociò passanti dalle facce scure e con gli ombrelli aperti; occhi fissi in avanti, passi affrettati. Un uomo dentro un pesante cappotto di lana gli camminò vicino, con una mano in tasca e l’altra che reggeva un giornale piegato sopra la testa. Non un cenno, non uno sguardo. Anche lui marciava innanzi, impassibile sotto l’arco delle sopracciglia. Forse era per via del suo braccio destro — precisamente, per la mancanza di metà del suo braccio destro. Dovettero tagliare al gomito, gli avevano detto, e che non s ’era potuto fare altrimenti. – Fatti forza, Berién – aveva implorato qualcuno in uniforme. Gli odori pungenti di alcol e di iodio erano quelli che ricordava di più. – La sveglieremo quand’è tutto finito, Monsieur Dersans – aveva espresso una voce femminile mentre gli giravano intorno. L’altro aroma che aveva distintamente avvertito era di rose, forse, o qualcosa del genere. Prima di scivolare nell’oscurità, aveva scorto una figura esangue con i guanti e la mascherina scuotere il capo. Udì un tintinnio e poi sentì di sprofondare in una sorta di palude muschiosa trapelata nelle lenzuola. Una battuta circa il piacere d’un animo più leggero fu la prima cosa che gli venne da dire, una volta seduto sull’orlo del letto . Non voleva guardarsi dov’era stato amputato, ma era conscio dei copiosi bendaggi che gli fasciavano il fianco. L’aiutante Bonnes sedeva di fronte, pallido e a labbra serrate, accennando un sorriso incerto. Si levò il berretto e s’ arruffò i capelli, coi gomiti sulle cosce. – Su, che una mano mi resta per alzare una coppa – disse Dersans. Guardò sul comodino, dove erano posati due bicchieri; uno vuoto e con dei fiori dentro, e uno mezzo p ieno d’acqua. – Non m ’hai po rtato del vino – continuò greve. Bonnes non rispose, parendo assai mortificato. Sollevò il capo e si rimise il berretto, tirando il mento in fuori per ricomporsi. Diede un’occhiata al compagno ferito. – Se c’è da passare per un altro inferno, amico mio, ti vorrei di nuovo con me... – Dersans lo fissò con occhi annebbiati. – Chirrad... – mugugnò, ma non trovò altre parole, e vide tremare le labbra dell’altro, in cerc a di voce. – Riposati, camerata – sbrigò Bonnes, – ci faremo una bevuta quando pure qu est’altra guerra verrà ... e poi, be’, ... finirà. – L’aiutante s’alzò e si piegò in avanti per afferrare le spalle dell’amico. Dersans non avvertì quasi nulla, intorpidito com’era dai sedativi. Bonnes lasciò la presa, uscendo dalla stanza dopo un saluto sommesso. – Au revoir, Berién. – Il caporale Dersans si trovava così solo, a parte per il vecchio prete rachitico che occupava una delle brande vuote e che dormiva continuamente, senza quasi mai muoversi. Poteva ben capire perché Chirrad si fosse dileguato, e detestava il fatto di doversi commiserare per quanto miserabile doveva essergli apparso. Diede un’altra occhiata al comodino laccato. I fiori erano peonie, come sua madre soleva tenere in un vaso nell’atrio. Gli piaceva quella fragranza, ed era lieto c he non fossero invece delle rose. Probabilmente ce le aveve messe quell’infermiera corpulenta con la pelle di porcellana , forse proprio per il fatto che le aveva parlato di sua madre, a volte, nonostante non ne fosse sicuro. La nebbia sugli occhi aveva cominciato a dissiparsi, ma permaneva la sensazione che litri di acque fangose gli fossero scorsi in tutte le fibre del corpo. S’alzò dal materasso lercio e cercò i suoi vestiti, notando s ubito quanto peso avesse perso. Individuò i suoi stracci da civile, piegati su di una mensola nell’armadietto — avrebbe preferito una nuova uniforme. Fece una smorfia e li indossò. Non vide l’infermiera, usc endo, e affrettò il passo per lasciarsi dietro quel puzzo stagnante. Sgattaiolava a raso dei muri per tenersi fuori dalla pioggerella, che non gli si appiccicava addosso. Le strade erano piuttosto deserte fino a quando raggiunse la parte nuova della città, dove alcune luci calde brillavano nell’aria umida. Arrivò alla taverna dove una volta buttava giù del cognac con Gené, Martiret e gli altri, Le Papillon De Nuit. Avevano messo una luce all’esterno, con una stecca di ferro a reggere una lanterna incandescente. Una falena dalle ali perfettamente triangolari ci si sbatteva contro, e un insetto più piccolo s’aggrappa va a uno dei pannelli vetrati — cercando calore e trovando invece la fine, come per certe persone. Proseguì, debole ed estraniato. L’olezzo del tabacco di cui era intrisa la spessa porta di castagno lo attirò, per un attimo, ma voleva un po’ di pace, non di sguardi. Lungo il corso, ecco le bancarelle, il vecchio bistro e il cinema aperto per l’ultimo spettacolo del pomeriggio. La rossa che vestiva di nero se ne stava dietro il bancone della sua pasticceria, d istratta — teneva una lunga sigaretta marroncina tra le dita e si tormentava le labbra con piccoli morsi. Berién s’era preso una cotta per lei, un tempo, ma allora era anche florida, e sposata. Se ne stava chiusa là dentro come un manichino, asciutta e amareggiata. Lui arrossiva ogni volta che lo accoglieva, chiamandolo “ Petit Berién ,” ma poi suo padre attaccava bottone parlando di gare nautiche, o qualsiasi cosa gli fosse d’interesse da un’estate all’altra. La signora annuiva e rideva cortesemente, con la voce più soave che avesse mai udito da una donna. Lui premeva il naso contro il vetro e bramava quei deliziosi bignè che confezionavano lì, oppure quei grossi mattoncini tedeschi di cioccolato e nocciole che erano i suoi preferiti, quasi ogni giovedì mattina se s’arrivava presto. Gli restavano pesanti sullo stomaco, dopo aver bevuto latte con miele, ma non l’avrebbe mai detto. Dopo questa disgraziata campagna di guerra, però, il solo pensiero della Germania lo nauseava — aveva odiato la Saarland fin da quando ci mise piede, specialmente per l’invito a ‘godersi il picnic’ da un cretino di sergente. Era troppo mesto e marcio da quelle parti, un pessimo teatro d’o perazioni. Nel giro di poco più d’un mese, duemila soldati francesi morirono prima che fosse stato lanciato un vero e proprio assalto. I crucchi invece persero solo un centinaio dei loro. Una mezza dozzina di carri armati furono distrutti dalle mine dei nazisti, che avevano fatto alla svelta coi polacchi e rinforzato le loro posizioni già a metà ottobre. Villaggi conquistati senza uno sparo, senza fatica. L’offensiva in ritiro dietro la Maginot fu un disastro, e quel sergente ci lasciò la pelle , in una delle province. Lui s’era trovato tra le truppe sul fronte occidentale, bivaccando per giorni nella foresta e tenendosi in piedi con soli fagioli e ciccioli di maiale. Nella continua roulette di schianti ed esplosioni, mezzo chilo di shrapnel gli aveva maciullato l’avambraccio destro, avvolgendolo in una frustata di fiamme. Fu fortunato, in un senso, dato che il medico di compagnia aveva parecchia morfina e plasma secco. Tornando verso Lorraine, tutti coperti di grasso e di cenere, gli fu detto di come avesse addirittura cantato, di tanto in tanto, nelle due settimane sulla brandina. I lampioni spuntavano più radi, all’imbocco del suo quartiere. La Luna color latte gli fece venire in mente Merí — la bella Merí Galliard, con il suo perfetto paio di tette. Il tipo di tette che tremolano come torte di crema in gelatina. Capezzoli color champagne, coordinati con le sue labbra rosee. Quando lui la fissava, lei gli sbuffava il fumo di sigaretta in faccia. Si metteva del rossetto pesante per ripicca, perché a Berién non piaceva. Le veniva naturale fare la smorfiosa, e l ui la perseguiva d’istinto, in un gioco tassante per i suoi capricci e le sue malizie, ma che la rendevano irresistibile. Persino se gli capitava di vederla seduta in un caffè nei pressi dell’appartamento d’un rivale. Detestava quando faceva così, tuttavia la raggiungeva comunque con disinvoltura e i pugni stretti in tasca, cercando di rubarsela per la sera. Le volte in cui l’aveva tutta per sé, Merí si lasciava prendere in qualsiasi maniera lui volesse, consumandogli poi i pensieri per i lunghi giorni seguenti. Solo la sua partenza per l’accademia aveva imposto loro una discreta distanza, e le abituali prostitute non lo soddisfacevano — il costante tanfo di sudore e di balsami fruttati era bastato a stemperargli la febbre. Passando davanti al cinematografo, carpì le note pungenti d’un disinfettante e di vecchi tappeti ammuffiti. Proiettavano due pellicole, quella sera: una sciocchezza sulla Legione Straniera chiamata “ Beau Geste , ” e “ Ninotchka , ” con quella famosa Garbo. L’ometto nel chiosco scrutava una rivista logora, strofinandosi il cranio calvo e mormorando tra le righe. Eccolo lì, incurante del massacro di intere schiere di fanteria. B erién esitava all’ingresso, nauseato dalla nostalgia della moquette color borgogna. Si dileguò, sfiorando l’insegna luminosa — il bagliore ronzante delle lampadine gli offrì un certo conforto, quindi si trattenne per un po’ , guardando su e giù per la strada al crepuscolo. Se ne andò verso il freddo del basso quartiere, con la pioggia sottile e pochi passanti dietro l’angolo. Mezze sigarette penzolanti in bocca e mani ben affondate in cappotti blu. Borbottavano della guerra e d erano diretti verso il bar, ma con passo leggero e disinvolto, come se venissero dalle corse. Lui mal sopportava quell’atteggiamento da perdigiorno, sempre a passeggiare sul corso o a bagnarsi la gola. Nel vederli proseguire, incuranti come apparivano, fu preso dall’ira. Si voltò e gridò – Vive la France! – Solo uno del gruppo si guardò distrattamente sopra la spalla, come se avesse udito un richiamo familiare da lontano, ma poi parve di far finta di non aver visto o sentito nessuno. Come si fa con gli amputati. Si sentì bruciare dal risentimento, e improvvisamente privo di forze. Doveva trovarsi un giaciglio, e i piedi lo conducevano verso la porta d’acciaio de l piccolo bordello, che era ancora là, dietro la rimessa. Il vialetto era squallido come al solito, scolpito dalle ombre e soffuso nell’aura scialba di un lumino incassato nel muro. Udì la risata ovattata d’una donna e s’imbucò con l’andatura di un ubriaco. Lo stretto corridoio giallino aumentò il suo disagio, piuttosto che le sue urgenze, ma era spinto per inerzia da un’ inevitabile attrazione — magari nella speranza di ritrovare Merí, o di non trovarla affatto. Perché poi avrebbe dovuto incontrarla in quel tugurio? Era ormai riuscita a ricavarsi un posto nella piccola borghesia grazie a molti uomini proprio come lui. La sua ambizione doveva essere quella di farsi vedere da lei, ridotto in quello stato e con chissà quale strana luce negli occhi. La debolezza lo stava però trascinando via dai sensi, così proseguì a rintanarsi desideroso nel suo rifugio. Un rantolo lo avvicinò a una porta sulla sinistra, mentre accanto gli passò una puttana di mezza età con delle pantofoline lacere. Il suo profumo era sorprendentemente gradevole, ed era possibile che l’avesse assaporato sulla pelle di qualcun’altra. Le gua rdò il culo per un attimo ed entrò nella stanza striminzita. Aleggiava un’aria malsana. Una gamba spuntava da un bracciolo, e un figuro si piegava sopra una giovane dalla chioma selvaggia. Era splendida, trovò Berién — lei fremeva e strozzava dei gemiti, ma pareva persa nei sui pensieri. Afferrava il petto dell’uomo per non farselo cadere addosso, per quanto quella bestia si sbatteva. La scena lo disgustò, voleva toglierlo di dosso e buttarlo fuori a calci. La ragazza non era la sua Merí, né le somigliava in alcun modo. Era come una figlia, ma la figlia di un altro Mr. Dersans in qualche altro villaggio. Fece per ghermire una piccola lampada sul tavolino, ma non riuscì nemmeno a sfiorarla — una forte scarica elettrica lo attraversò all’istante, arroventandolo come un fil o di rame — balzò all’indietro e trasalì Un topo schifoso doveva aver rosicchiato un cavo, e quel volgare oltraggio lo infuriò ulteriormente. Guardò stizzito quella maledetta lampada, ancora accesa e ancora immobile sul tavolino, e notò come fosse solamente riuscito a far dondolare alcune delle frange verdi che pendevano dal paralume. – Merda, questo braccio! – ruggì aspro. – Al diavolo tutto! – La ragazza allora si scosse e voltò il capo, sbattè gli occhi e lanciò sguardi nella stanza, allarmata dalla strana e terribile voce che aveva appena sentito vibrarle addosso. Si raggelò, inorridita, quando scorse la diafana presenza d’un giovane in piedi, bendato e scavato in volto. Era grigio ed evanescente, come una nuvola di fumo, ma fiammeggiante nelle sue piccole pupille scure. Gli mancava metà del braccio destro. Lei urlò e battè i pugni contro l’uomo per sollevarsi dalla poltrona, poi afferrò la gonna e corse via scalza. Il tipo, confuso, s’accasciò goffamente sui polpacci e si mise a bestemmiare. Berién tremò, sapendo di essersi perduto, sentendosi svuotato di ogni reale senso d’appartenenza All’improvviso, i contorni delle cose e i bagliori tra le oscurità vorticarono oltre le pareti, volando fuori nella notte. Di nuovo sulle strade, si rese finalmente conto d’aver girato per la città come un’ombra soltanto, sin dal l’ ospedale dove era deceduto ore prima, al pari di molti altri della sua stessa età. Come fanno i soffioni, il caporale B. Dersans fluttuò silenziosamente per vari minuti, finché fu catturato da un intreccio di foglie nella schiera dei meli lungo la stazione ferroviaria, che avevano iniziato a ristrutturare per accomodare vagoni militari e quant’altro Gli risult ò bizzarra l’intimità c he scoprì nella compagnia d’una singola foglia, o la confortevole consuetudine dello strisciare, invisibile, tra mattoni sparsi e ciuffi d’erba Quegli altri, che sbuffavano caldi vapori nell’aria umida, sembravano proiettati su ll’antico cielo di un nero infinito, dei semoventi puntini di luce difficilmente distinguibili dal pulviscolo. Con un cuore nelle carni e un sogno nella testa, e perciò abbastanza invidiabili , almeno per un po’. Non era scomparso del tutto, Berién, grazie alla fitta rete elettrica che ora correva lungo le piste dei binari per allacciare lo scambio locale — a volte, in mezzo a larve d’insetto o nelle crepe dei muri, poteva godersi i raggi lunari o la risata argenti na d’una donna. Gradiva anche origliare segreti e barzellette che circolavano tra i manovali, quando si radunavano intorno alle centraline e pranzavano col vino, o con del brandy. A qualcuno era capitato di intravedere il triste spettro di un soldato, talvolta, e presto si sparse la voce. I più superstiziosi evitavano di bighellonare in stazione, di notte, ma molta gente si fece curiosa e lo cercava per visite di conforto, fischiettando stornelli o lasciando in offerta dei pacchetti di Gitanes con dentr o l’ultima sigaretta. A lavori terminati, poi, i l “fantasma della ferrovia” fu dimenticato, o sparì dai dintorni. C’era chi diceva che fosse stat o l’eccessivo trambusto a cacciarlo via, e chi invece credeva che fosse salito a bordo di una di quelle nuove carrozze, lasciando per sempre la città.