Era presso al castello un tempietto di pietra, che dal suo campanile a foggia di torre con gli archi aperti a semicerchio, appariva di quelli tanti che restano ancora su queste colline, fondati sino dal tempo della Contessa Matilde. Poco più in basso dal lato di levante sorgeva un palazzotto d’un solo piano; i cui pertugi sbarrati di ferro; la campana che in mezzo a un arco a sesto acuto stava sopra di esso, e lo stemma della repubblica pistoiese sopra la porta, avrebbe dato facilmente a conoscere che quella era una potesteria. Ivi infatti risedeva il potestà dei due prossimi paesetti, di Vergiole e di Gello. Vi s’accedeva per questa medesima via; l’antica mulattiera dell’alta montagna che seguitava fino a Prunetta: quindi per S. Marcello fino al varco di Boscolungo per Modena. Un piano inclinato, e lastricato a frequenti risalti e cordonati dava l’accesso, alquanto ripido, alla parte anteriore del castel di Vergiole. La sua torretta si vedeva spiccare in mezzo a belle selve di castagni. Aveva dinanzi un piazzale, d’onde s’entrava, varcato il ponte levatoio, nel centro della fabbrica, che era un cortiletto, capace d’accogliervi pochi fanti e cavalli. Non appena il cavaliere giungeva sulla crina del poggio, che la scolta della torre l’aveva annunziato al fido scudiero del Castellano. Guidotto, tale era il suo nome, stava occupato a forbire le armi del nobil Signore, cui per doppio titolo dipendeva, essendo figlio del castaldo di Vergiole. Affacciatosi agli spaldi, col suo occhio di lince anche a molta distanza aveva già subito riconosciuto il cavalier De Reali, e prevenivane il capitano. Intanto il cavaliere giunto al piè del castello, trovava sulla scalinata lo scudiero che venivagli incontro; e aderendo al desiderio di lui che era sceso di sella, lo invitava a salire: mentre un palafreniere già pronto, presogli a mano il cavallo, girando a tergo gliel conduceva alle stalle. Non erano però sfuggite all’occhio di lui che saliva due gentili donne: una delle quali provetta d’età, l’altra giovanissima e bella, che dal sinistro lato del monte dirette a quella volta, pareva che forse per l’ora assai tarda affrettassero il passo più dell’usato. Come appena il cavaliere le ravvisava, e fatte omai più vicine, ben s’accorse che con qualche sorpresa si erano soffermate e gli volgevano il guardo, cortesemente le salutò. Varcato poi il ponte levatoio, la porta del castello si chiuse dietro di lui. Era giunta la sera. Lo scroscio del sottoposto torrente si confondeva con l’alitar fra le fronde d’un vento sommosso più dell’usato e più fresco. Le incognite intanto a prender posa dalla salita si eran soffermate su quel breve ripiano del quale il castello si circondava. A poco a poco disparivano al guardo loro che spaziavasi intorno, non che la città, i villaggi, i verdi campi e le grosse fiumane; financo il prossimo bosco di pini, d’albatri, e de’ rigogliosi felceti, dove soleano recarsi a diporto, e ne venivan pur dianzi. Non mai il sole era caduto sì splendido fra le prossime torri di Serravalle. In quel campo del cielo ancora infiammato dal raggio estremo del gran pianeta, era tornata a brillare di sua luce soave la stella d’amore. L’affissò con desio la donzella, e traendo un lieve sospiro, si volse alla madre, le porse dolcemente il suo braccio, e a brevi passi se n’entravano nel castello. Ma mentre ogni cosa nel silenzio della notte taceva, mentre placido era l’aspetto della natura, vegliavano, e come onde in tempesta agitavansi i pensieri per entro alla mente del Signor di Vergiole, e del novello arrivato. Era questi il valoroso cavaliere messer Simone di Filippo Reali di Pistoia. Non appena l’uno l’altro si erano avvicendati il saluto, che il De Reali, al capitano venutogli incontro nella sala del castello di già illuminata, presentava una lettera ch’ei diceva di grande importanza. —Da dove, o cavaliere? —Dal comando generale delle armi. —Che mai?—Ed apertala, e rapidamente percorsa: —E questo financo dovevano aspettarci? Oh! voi pure, voi pure il sappiate. E portagli la carta, il cavaliere la svolse e ad alta voce leggeva: «Capitano Vergiolesi, I miei fidi di Fiorenza e di Lucca mi mandano celato avviso che fra qualche giorno le milizie di queste repubbliche si raccorranno in un campo presso Fiorenza, e che ivi attendono il Duca di Calabria per venire con grosso esercito ad assediare Pistoia. Starò ancora aspettando più certe novelle: ma frattanto la città vostra è in pericolo! Venitevi senza indugio. Attende da voi anch’adesso e consiglio e soccorso ———— Il vostro Capitan degli Uberti». —E il mio braccio e quello dei miei figliuoli lo avrà!—Così di subito il Vergiolesi; che ad un tempo afferrata la spada distesa sul tavolino, forte sdegnato ripercotevala su di esso. Quindi al cavaliere risolutamente accennando con mano d’assidersi presso di lui, in questi termini gli favellava. —È omai lungo tempo, e voi pure il sapete, che i Fiorentini e i Lucchesi si collegano ai nostri danni. Ma con qual dritto e con qual giustizia chi è mai che nol vegga? —Io mi spavento, o capitano,—soggiungeva il Reali—a pensare di qual novella vi sono stato latore. Perchè ove noi, che pochi pur siamo in faccia ad un’oste così poderosa, da altre genti potessimo almeno aspettare un sostegno, con più coraggio potremmo tentar la difesa. Abbiamo, è vero, i Pisani; abbiamo i Senesi, e gli Aretini amici di nostre parti; ed essi, si dichiararono che ci avrebber soccorso: ma più credo io di danari che d’uomini, stretti che sono di guardare i propri confini. Ora, siamo noi ben sicuri di que’ di quassù? (e accennava all’Appennino) da’ quali forse il più valido aiuto d’armigeri…. —Vero pur troppo!—interruppelo il capitano.—I Bolognesi erano nostri antichi alleati. E adesso, chi l’avrebbe pensato?…. Oh! messer Cino, l’amico nostro, già di costoro…. E il Reali—Nol sapete? Fino di ieri ei tornava fra noi. —Tornato! così fuor di tempo? Gravi dunque oltre modo debbono esser gli eventi: perchè pochi giorni decorsi sapete voi quel che di là mi scrivesse? E fattosegli più d’appresso e premendogli un braccio, con più bassa voce e lenta e repressa, diceva: —Che da qualche tempo era un continuo apparire a Bologna di Fiorentini e Lucchesi: e rimanevan celati e segreti conciliaboli vi tenevano. Che le calunnie contro a’ Bianchi avean già quasi sovvertito il pretore; e più che le parole, la gran quantità di fiorini d’oro corrompeva la moltitudine e si comprava un partito. Che già i Neri prendevan baldanza: e d’altra parte fra i Bianchi l’irritazione era giunta a tal punto, che erano per irromper le ire, non volendo più sopportare i lor dispregi e gl’insulti. —Dio!—esclamò il Reali—che speranze abbiam dunque a nutrire dopo siffatto abbandono? In che mai dobbiam noi confidare? —Nelle nostre armi e nel nostro coraggio!—proruppe il Vergiolesi. E in così dire, levatosi risoluto, afferrava con la destra nuovamente la spada, e la sinistra orizzontalmente distesa, alquanto immobile si rimaneva. Sicchè, alto com’era della persona, fiero nel volto, e con occhi nerissimi scintillanti, ti sarebbe sembrato non altrimenti che un supremo capitano di guerra, che innanzi a’ suoi prodi ha intimato la pugna. Appresso commetteva al Reali riferisse all’Uberti, che la mattina veniente avrebbe assistito alla solenne conferma de’ suoi uffici, e conferito con lui; e senza più si eran divisi. CAPITOLO II. I BIANCHI E I NERI. «Vedess’io questa gente d’un cor piano Ma ella è bianca o negra.» ———— Messer Cino, Canzone. «Pistoia pria di Neri si dimagra, Poi Firenze rinnova genti e modi.» ———— Dante, Inferno, canto XXIV. Quale straordinaria impressione avesse prodotto nell’animo del capitan Vergiolesi l’annunzio di guerra recatogli dal De Reali può solo immaginarlo colui che, posto mente alle turbinose vicende dell’italiane repubbliche, e fra queste alla pistoiese, dovrà convenire che mai più prepotenti non dominarono come allora gli odi e gli sdegni; le ambizioni più violente degl’individui fra di loro, fra le diverse fazioni, fra l’una e l’altra città. Per lo che all’intelligenza di queste pagine reputiamo utile d’accennare di ciò che riguarda il signor di Vergiole e il cavalier De Reali; non che del civile stato di Pistoia, e de’ politici avvenimenti che si compierono prima di questo tempo. Dicemmo già che M. Simone De Reali fu valoroso capitano di parte Bianca. Ma però non di quelli cui il proprio partito suol soverchiar la ragione, nè altro attendono che a non far ciò che imprese a fare la parte avversa, ancorchè faccia bene. Antico errore degli uomini di parte, che per sistematica opposizione toccando spesso gli estremi, trasser la patria in man de’ settari e in rovina. Riflessivo e prudente era invece l’animo del De Reali. Infatti quattro anni innanzi, quando i suoi concittadini per le intestine discordie de’ Cancellieri videro ridotta in pessimo termine la città, si adoprò egli prima a far riunire il general Consiglio del popolo, perchè a una nuova magistratura che si chiamò de’ Posati fosse data autorità e balia di far leggi e statuti per la pace della repubblica. E fu pure dei primi a proporre al Consiglio che per conseguir questa pace era d’uopo che almen per tre anni si desse ai Fiorentini, già loro alleati, la protezione e tutela della città. All’interne discordie forse un terzo che si fosse intromesso, più poi un’estranea autorità come quella, credè che più facilmente avrebbe conciliato le parti. Infine la sua mite indole e generosa non d’altro studiavasi che di rendere alla terra natale la perduta tranquillità e la sua floridezza. Non così moderato era l’animo del Vergiolesi. Troppe condizioni poneva innanzi per ottener questa pace. E sì che egli pur la bramava: non però mai col piegarsi a siffatta tutela. Per lui era questo un troppo umiliar la città. Nè poco ostacolo gli facevano a ciò i principii ereditati da’ suoi maggiori. Non che di magnatizia prosapia, si diceva uscito dalla famiglia romana Vergilia, dalla quale, emigrata con molte altre in Etruria, vuolsi che il villaggio che la accoglieva prendesse nome Vergiole. Contava poi fra’ suoi antenati fino dal 1156, da Guido che fu primo signor di Vergiole, lunga serie di avi che occuparono in patria e fuori i più nobili uffici. Noverava un Tancredi console dei militi; un messer Orlandetto gonfaloniere di giustizia; ed il celebre Guidaloste già vescovo di Pistoia, ed eletto anche capitan generale delle milizie, perchè di grand’animo e pratico molto delle cose di pace e di guerra. Ebbevi in fine messer Soffredi capitano e rettor di Bologna; e tutti costoro costantemente della parte de’ Ghibellini. Di questi tempi poi il cavalier Bertino, e messer Luca fratelli del capitano Filippo; Fredi e Orlandetto, figli di questo, non avevano smentito in parole ed in fatti l’attaccamento alla parte della casata, irremovibili in quella lega dei Ghibellini e dei Bianchi. Ora nissuno più del capitano avvisava che se le molte milizie, come dicevasi, insiem collegate, venissero a quest’assedio, male da soli avrebber potuto resistere. Vedeva che molti dei cittadini più valorosi erano stati cacciati, e così la sua parte, per adesso dominatrice, a breve andare correva rischio d’essere umiliata e disfatta. Non per questo era uomo da trarne sgomento. In faccia anzi al pericolo gli cresceva l’ardire. Benchè presso al duodecimo lustro, si sentiva animo giovanile e capace di grandi cose. Se queste poi in pro della patria, nol trattenevan dubbiezze od ostacoli. Ma sebbene i più savi in politica sien d’avviso non esservi principii certi e norme invariabili per giovarle, se non quelle dell’onestà, e doversi anzi mutar consiglio ne’ modi, ove l’esigano gravi cause e il pubblico bene, per lui non era sì agevole il rimoversi dalle proprie opinioni, e la sua parte una volta abbracciata, doveva esser quella. Un carattere sì tenace del suo proposito, e l’autorità di probo cittadino, ed esperto nell’armi, aveva influito a condurre alle sue parti, non che quelli di sua parentela, moltissimi di città e del contado. Si tenevano infatti nella casa dei Vergiolesi in Pistoia i più importanti consigli. Di qui si deliberava sulle pubbliche aziende; le opinioni più generose si rafforzavano, e prendevan voce per ogni lato. Messer Fredi, di lui figliuolo, non meno del padre era fervido e risoluto: congiungeva però alla fierezza dell’uomo d’armi tale urbanità, tali attrattive nell’aspetto e nel favellare, che, come in lui eran doti spontanee e naturali, gli acquistavano fra’ suoi compagni stima ed affezione particolare, e una deferenza a’ principii del padre suo, ch’ei pur professava. E lo notavano come il modello del proprio zio messer Bertino, quattr’anni innanzi ucciso a tradimento da quelli di parte Nera, e che passava pel più nobil cavaliere della città. Messer Orlandetto, il minore de’ figli, non differiva nell’animo dal fratel suo; sicchè ambedue per indole nobile e generosa formavano il vanto della famiglia, e la speranza del lor partito. I deplorabili ultimi avvenimenti, e le discordie più accalorite della città, avevano da qualche tempo fatto men tollerante, aspro anzi e risentito l’animo del capitano; il quale solo talvolta placavasi, e rimetteva del consueto disdegno al cospetto di sua figlia Selvaggia. Costei con un parlar dolce, e sempre giusto e persuasivo, esercitava sopra di lui tale arcana potenza, che egli, pel grande affetto che le nutriva, senza esitare piegavasi al piacer suo. Chè anzi ogni più lieve alterazione di salute o di spirito della diletta figliuola, bastava a recare in quel forte animo il più grave sgomento. Conferiva non poco quest’amore per essa a moderarlo con la consorte. La quale quanto più implorava dal cielo a’ suoi cari più miti gli spiriti, e il viver cittadino più riposato e tranquillo, ad ogni nuovo rumore per la città, più si poneva in angustie, e stava in sospetto pel marito e pei figli. Per lo che messer Lippo, se ella alcun giorno gli fosse apparsa timorosa ed afflitta, usciva subito in rabbuffi e in rampogne; o per lo meno soleva ammonirla che l’occhio bagnato di lacrime non è atto a vedere. E allora, ponevale innanzi la fredda ragione, l’onor di famiglia e i diritti di cittadino, che ad ogni modo con le parole e con l’armi chiedevan difesa e vendetta. Tali erano e così insite in tutti quelli animi queste gelose passioni, che l’offesa più lieve, o quale si fosse divergenza di parti bastava loro a por mano sul brando. Ma di tal fiamma distruggitrice chi primo portò qui la favilla? Come e per quali cagioni fu secondato un incendio, che or celato ora aperto e in varie forme ebbe fomento per tanti anni? La gran lotta fra l’Impero e la Chiesa, suscitatasi in Germania pe’ diritti a conceder titoli e investiture, ne diede l’origine. Il grido de’ Guelfi e de’ Ghibellini, partito dalla battaglia di Wisenberg, si diffuse prima per Lamagna, poi su i campi d’Italia. Qui dunque come colà si parteggiò sulle prime pe’ medesimi pretendenti: o per Cesare e i fautori appellaronsi Ghibellini, o per Pietro e si dissero Guelfi. Come coloro che avevano ereditato le fiere lotte di Gregorio VII e di Arrigo IV, cercavano le parti di far trionfare ciascuna la propria supremazia: la quale mirava, per l’una a fondare un nuovo regno o meglio federazione in Italia, che distruggendo ogni traccia delle conquiste longobarda, greca e araba, dipendesse da Roma; per l’altra invece da Aquisgrana. Ma imperatori e papi, che dovevan comporre a concordia la specie umana, la turbarono trasmodando ne’ loro poteri non ben definiti. Ildebrando immaginò di levar la Chiesa a prima potenza della terra; e per toglierla affatto dalla sudditanza degl’imperatori, che per vero con le investiture dei benefizi ecclesiastici si erano arrogati un diritto che ad essa spettava, egli solo voleva esser detto re dei re, signore de’ dominanti. Ma gl’imperatori, presumendo di avere ereditato la potestà antica dell’Impero Romano, sdegnarono di sottostare a cotesta dipendenza. La Chiesa, o meglio la Curia romana frattanto, col suscitar pur essa a pro suo l’elemento dell’antico Impero Latino, e con la sua rappresentanza che era in Roma nel Senato, studiavasi d’amicarsi i Comuni italiani favorendo le tendenze d’emancipazione dei popoli, cui già pesava la straniera supremazia. E per questo lato in que’ primi tempi l’alta protezione pontificale potè essere all’Italia di molto vantaggio. Ma in questo mezzo i Comuni, traendo profitto dalle discordie che non cessavano fra la Chiesa e l’Impero, non vollero più sottostare nè all’uno nè all’altra. Fu da quel tempo che ciascuno non pensò più che a provvedere a se stesso. Già da ogni parte s’era svegliato uno spirito nuovo. Cominciarono i popoli a scuotere il giogo feudale mantenuto dalle due potestà; poi a volere un governo d’ampia forma repubblicana, civili e propri Statuti. Gli Italiani liberati dai barbari, fatti ricchi e potenti pe’ grandi commerci, avevan sentito la propria forza, la virtù e la dignità d’un gran popolo. Sorgeva infatti fin da quel tempo pei municipi la prima aurora di libertà: la quale, per quanto osteggiata dai loro dominatori, nei due secoli appresso andò sempre diradando le invide nubi, finchè con la crescente luce di civiltà il genio italico ravvivato, apparve alla fine nel suo pieno splendore. Perduravan le funeste contese fra la Chiesa e l’Impero, allorchè, dopo la morte del secondo Federigo, il Comune di Pistoia coi più della Toscana si volse al partito dei Guelfi. Sperarono sorti migliori dalla protezione non più di un principe straniero, ma italiano e pontefice. Tardi però s’accorgevano che questi, debole per sè come principe, non con armi proprie ne prendeva la tutela, ma sì con quelle di altri stranieri. Nondimeno in Italia a quel tempo ogni Comune, novello polipo, viveva già d’una vita propria, e fra loro era sorta una nobile emulazione. Negli ultimi trent’anni con che compivasi il tredicesimo secolo, Pistoia col suo distretto fioriva già di commerci, d’industrie, di banche: aveavi culto di lettere e di scienze, e grande amore di arti belle. In prova di sua cultura basterà ricordare per le prime un Meo Abbracciavacca, un Lemmo Orlandi, e lo stesso sciagurato Vanni Fucci, assai pregiati fra i trovatori; poi quel Soffredi del Grazia, uno de’ più antichi prosatori italiani, le cui scritture sono innanzi al 1278. L’amor per le scienze si facea manifesto per quel famoso frate Leonardo pistoiese che primo scrisse un trattato sul computo lunare (1280) e per la cattedra di Leggi che dal celebre Dino da Mugello si teneva in Pistoia. Di messer Cino de’ Sinibuldi non è a dire, quando tutti ancora l’ammirano e gli fanno onore. Del culto poi delle arti belle (esse pure sicuro argomento di civiltà) fanno fede pur sempre, il celebre altar di S. Jacopo di bassi rilievi d’argento, che, con la Sagrestia de’ belli arredi, segnano dugent’anni del buon tempo dell’orificeria, de’ ceselli, de’ nielli e di smaltature. Il quale altare dall’orafo cittadino Ognabene, e da altri si cominciò ad arricchire di pregiati lavori fino dal 1287. Aveva dipinto in cattedrale il pistoiese Manfredino d’Alberto, che adornò San Michele di Genova nel 1292, e l’altro pittore e mosaicista Vincino che lavorò nel Camposanto di Pisa. Quindi son ricordevoli, il palazzo del Comune ed alcuni bei templi: le sculture poi dei pergami, d’un Guido da Como; le mirabili d’un Guglielmo; e le quasi uniche d’un Giovanni, l’uno e l’altro pisani. E se si pensi che queste opere sorsero le più sul finire del secolo XIII, e appresso, in una piccola città, fra le lotte della civiltà e del dispotismo, fra i corrucci più fieri de’ cittadini divisi, sono anche oggetto di maggior meraviglia. A queste prove di civil governo aggiungi gli Statuti pistoiesi, che furono de’ primi in Italia (circa il 1117) a distruggere i privilegi feudali, a recare fra i cittadini una più equa ripartizione di diritti: infine i belli ornamenti della propria milizia. Le quali istituzioni, degne invero di forte e libera gente, avrebbero assicurato a Pistoia le più prospere sorti, se il mal seme, sparso prima in Firenze pel crudo fatto de’ Buondelmonti, non avesse prodotto entro di essa e nelle terre vicine l’amaro frutto della discordia. In Pistoia di questi tempi primi a insorgere e parteggiare con nuovi nomi furono i Cancellieri; sopra gli emuli Panciatichi potenti già per dovizie acquistate con la mercatura, per uomini d’arme, chè ne contavano lino a cento, e diciotto cavalieri a spron d’oro, per grandigia e per ambizione di dominio. Rifugge l’animo a ricordare le feroci rappresaglie, prima fra le dette casate le maggiorenti in città, insorte poi fra una medesima parentela, intendiamo fra quella de’ Cancellieri. L’aspra vendetta del taglio d’una mano presasi da uno di loro sopra un giovinetto parente, dal quale innanzi per rissa un figliuolo dell’altro era stato non gravemente ferito: vendetta tanto più cruda quanto che il feritore era venuto a chieder perdono agli offesi; fu cagione che la detta casata col nome di Bianchi e di Neri (così detta o dai nomi delle madri stesse, o dai colori che portavano in guerra, o da qualsiasi altra cagione) si dichiarò avversa e divisa in cotal modo, che trassero seco i cittadini d’ogni ordine o da una parte o dall’altra, e fieramente s’inimicarono. Tutti ora a Pistoia come a Firenze si dissero Guelfi, ma nel fatto con diverse intenzioni, quelle, cioè, di far risorgere più violenti gli sdegni fra nobili e popolo. Di qui la suddivisione dei Guelfi di Pistoia in Bianchi e in Neri, e questi con propri capi ed insegne. Ma feroci e temibili tanto, che i capisetta bisognò incontanente bandirli a Firenze. I Bianchi, poichè furon vinti, cercarono aiuto colà presso dei Ghibellini, e vi trovaron parteggiatori nella famiglia dei Cerchi: i Neri unitisi a’ Guelfi, in quella de’ Donati. Però questa fazione de’ Bianchi e de’ Neri non è a credere, come da alcuni fu asserito, essere stata la favilla che suscitò la fiamma delle discordie di Firenze. Bisognerebbe avere obbliato le vecchie ire personali di quei cittadini fin da quelle de’ Bondelmonti e degli Amidei; la superbia dell’antica nobiltà già alle prese con la gente nuova: l’una capitanata da Corso Donati, l’altra da Giano della Bella; e di qui sino a quest’anno le rappresaglie, le uccisioni, gl’incendi; e per fine la spedizione violenta degli usciti contro la città loro; spedizione che, sebbene fallita, pose il colmo alle divisioni. Esse eran già all’estremo fra quelle mura, quando i fatti di Pistoia vi s’immischiarono. I quali, secondo che rilevasi da Dino Compagni e dal suo moderno illustre biografo e commentatore, Carlo Hillebrand, altro non furono che una suddivisione de’ Guelfi, e un episodio di quella feroce epopea di sciagure italiane, che dopo dieci anni non si udì più ricordare, perduto nei primitivi nomi di Ghibellini e di Guelfi. Terribile lezione pur sempre pei popoli bramosi di libertà, perchè serbino concordia; se pongano mente che mali indicibili procacciassero allora le divisioni d’una sola famiglia! Alla fazione de’ Neri s’accostarono tutti i Guelfi aristocratici: a quella dei Bianchi i Guelfi popolari: quelli sostenitori delle pretese feudali; questi bramosi di conservare la loro libertà democratica. Parteggiavano co’ Bianchi in Firenze gli uomini più notevoli per nobiltà di natali, per indole buona, per ingegno e sapienza. Un Guido Cavalcanti, gentile poeta; l’intemerato storico Dino Compagni; oltrechè l’astrologo Cecco d’Ascoli, i verseggiatori Guittone d’Arezzo e Jacopone da Todi: lo storico Giachetto Malespini, il giureconsulto Donato Alberti, il legista Petracco; e in fine, a porre in fama la schiera, Dante Alighieri. Stavano all’incontro pe’ Neri molti de’ popolani con a capo Corso Donati; i Frescobaldi, i Pazzi, i della Tosa. Questo rinnovarsi dell’antica lotta, benchè per breve, ma più violenta, non però fece sì che le sette, invocando i simboli di parte del papa o dell’imperatore, parteggiassero con loro e per loro. I nuovi nomi non furono che una parola d’ordine, cui rispondevano per ravvisarsi le famiglie nemiche. Si accostavano di preferenza a quella fazione d’onde speravano maggior beneficio, o temevano minor danno. Infine, per avervi man forte a schiacciar l’avverso partito escludendolo dagli onori e dai beni della repubblica per ottenerli essi stessi. E infatti, per l’assenza dall’Italia e per l’abbandono dell’imperatore, i Guelfi, non più come un tempo popolari tutti, ma parte ora aristocratici, riuscirono in ultimo a prevalere. E ciò perchè aiutati da papa Bonifacio che da Roma potentemente li favoriva, tanto da mandare un venturiero di Francia a capitanarli, e a far quel gran male che poi diremo. E soprastarono anche per altra ragione. Perchè gli Spini di Firenze che eran banchieri del papa e altri aderenti Neri, allora siccome sempre, nel temporale governo lo circuivano, e volentieri per loro utile lo secondavano. Si ebbe un bel chiedere a Bonifazio s’interponesse a concordia: quella sua indole violenta all’uffizio di paciere non s’affaceva gran fatto. Nondimeno inviò a tal uopo a Firenze il cardinal d’Acquasparta. Inutilmente però. I Bianchi avevan già occupato il governo: e temendo che la corte di Roma abusasse de’ poteri che dimandava per abbassarli, rifiutarono al cardinale di ridarsi in balìa. Ed ei sì partì e la città interdisse. Allora la signoria di Firenze opinò di poter conciliare senza esterno intervento col porre a confine i caporali d’ambe le parti. Ma i Neri di subito con Corso Donati andarono al papa, e lo incitarono contro a’ Bianchi, e, come gli chiamavano, contro a’ cani del popolo per abbassarli, e favorire la nobiltà. Or come a Bonifazio premeva molto di abbassare Federigo usurpator di Sicilia, e di ripor questo regno in mano degli Angioini di Napoli da lui deferenti, invitò a tal impresa Carlo di Valois, fratello di re Filippo di Francia, e con questa spedizione colse il destro ad un tempo di favorire i disegni de’ Neri, inviando il francese, come già l’altro Carlo d’Angiò, in qualità di vicario in Toscana con cinquecento cavalli, e col titolo di paciere di Firenze. Sperava il papa con ciò di recarsi in potere assoluto, e alle sue parti tutti quanti i Comuni. «Così (osserva uno storico illustre) nell’anno medesimo in cui a Roma si dava col giubileo general perdono a tutti i peccati degli uomini, si preparava ivi stesso una grande iniquità, che a Firenze e altrove fu cagione di lunghe sciagure.»¹ ¹ Vannucci, I primi tempi della libertà fiorentina. Mentre queste cose da siffatti protettori si macchinavano, e il consiglio de’ Posati a Pistoia aveva già consegnata per amor di concordia la signoria per tre anni al Comune di Firenze, la fazione de’ Bianchi fiorentini abusando della fiducia, non appena giunta in Pistoia, per afforzarvisi di prepotenza cacciò la Nera, e ne disfece le case e le torri. In questo modo riformata la parte Bianca, poco stette che non fosse poi fatta segno alle tremende vendette de’ Neri che tenevano il governo di Firenze e di Lucca, e secondavano le male arti de’ fuorusciti. Che volesser costoro già l’abbiam detto. Chiamar lo straniero a Firenze per lor private vendette, era massima iniquità. E lo straniero avido di potere e di danaro, venne e vi si fece tiranno. Scellerato paciere, che a nome del papa dava forza ai ribaldi di riempire di sangue e di desolazione tanto bella città! Sotto il suo usurpato governo ogni sorta di nefandità fu commessa. Al principio dell’anno 1302, Carlo di Valois macchiato omai di molti delitti, se ne partì e andò a Roma per aver consiglio dal papa, e gli chiese danari. Bonifazio (come narra pure Dino Compagni) gli replicò che mandatolo a Firenze, lo aveva messo nella fonte dell’oro. Risposta che bene spiegava la qualità delle sue intenzioni. Dai fatti che seguitarono, apparisce secondo i cronisti e lo storico prelodato, che fin d’allora fu stabilito l’esilio dei Bianchi. Infatti il Valois tornò a Firenze, e sapendo che ivi era la fonte dell’oro, saziò a quella le bramose sue voglie. Fece altre rapine; diè sentenze di morte; pubblicò i beni, e arse le case ad alcuni, che falsamente e con empio artificio furono accusati di aver cospirato per ucciderlo. Imprecato da tutti, deliberò di partirsi; ma prima «nuovi tormenti e nuovi tormentati!» Per mezzo del suo vil potestà, procede alle condanne del bando, ed esiliò oltre a seicento cittadini, i principali de’ Bianchi, che sparsi per Toscana e fuori, fecero causa comune coi Ghibellini. Tra questi esuli fu anche il grande Alighieri. Citato a comparire per essere stato dei Bianchi, e per aver contrastato alla venuta dello straniero, non si presentò, ed ebbe arse le case, confiscati i beni, e condanna di morte! Ma egli aveva il modo a vendicarsi solennemente delle scellerate condanne; e fra le miserie dell’esilio, sentì crescersi la forza dell’animo per consacrare all’infamia i furibondi settari, e i suoi giudici iniqui. CAPITOLO III. FIORI E ARMI. «Quando va fuori adorna, par che ’l mondo Sia tutto pien di spiriti d’Amore, Sì che ogni gentil cor divien giocondo». ———— Sonetto di Messer Cino. «Ridendo, par che s’allegri ogni loco; Per via passando, angelico diporto, Nobil negli atti, ed umil ne’ sembianti». ———— Altro Sonetto di Messer Cino. Da antico tempo costumava a Pistoia, come a Firenze, di festeggiarsi dal popolo nel primo giorno di maggio il ritorno di primavera. Ciò si faceva sulle pubbliche vie e nelle case, con trionfi di fiori, con giuochi, con balli, e con sollazzi di varie guise. Dopo gli ultimi eccidi per le civili discordie, e dopo gli esili di tante famiglie, i tempi a dir vero in Pistoia per pubbliche feste non pareano opportuni. Nondimeno da circa tre anni che vi fu creato il consiglio de’ Posati, e per la tutela che ebbe di quel governo il Comune di Firenze, vedendo i rettori restituita alquanto di quiete alla città e al distretto, essi medesimi vollero in questo giorno ripristinare in modo straordinario pubblici rallegramenti, e far così obliare per qualche istante le passate sciagure. E il popolo, che agli spettacoli per propria indole si sente allettato; quello poi di sì forti tempre, e vivace ad un tempo, che facilmente passava dalle danze agli assalti, ignaro al tutto della nuova sventura che al di fuori gli si apprestava, n’ebbe caro l’invito, e concorse desioso a prendervi parte. Ed ecco che fino dall’alba i sacri bronzi suonavano a festa. Da quell’ora, del più bel mattino d’un primo di maggio, la cattedrale riboccava di popolo, perchè era solito che anche co’ sacri riti si festeggiasse questo bel giorno. Lì in quella piazza maggiore avresti veduto giungere ogni momento giovani donne, per lo più dal contado, farsi largo fra ’l popolo con volti belli e giulivi, e con a braccio ed in capo gran canestri di rose, avvicinarsi alla chiesa, e alla porta di essa presentarle a un sacerdote che le benediva. Antico costume che in Pistoia, e in questo mese, tuttora si mantiene, e che forse si volle sostituire alle pagane feste floreali. Que’ fiori si vendevano poi per le vie, a mazzi e a ghirlande come un li volesse. Le rose in tal giorno avevan pel popolo un che di mistico, di lieto augurio, di benedizione, tanto che non v’era alcuno che ricusasse di farne acquisto. Al cessare del suono a doppio di cattedrale, la campana della torre grande di sul palazzo del capitano continuava a gran tocchi: e al tempo stesso le trombe marziali, rispondendo per ciascuno de’ quattro quartieri della città, appellavano gli uomini d’arme alle insegne. —Che è questo?—si dimandavano, imbattendosi per la via di S. Prospero, due vecchi cittadini. —Calen di maggio, messeri: forse Dio! nol sapete?—replicava loro un altro sopravveniente.—Oh! alla fine mi s’apre il cuore: un po’ di festa, un po’ d’allegria!… E un di quelli: —Ma dove va’ tu col capo? Oggi che han che fare i fiori con l’armi? E porgendo l’orecchio: —Sta’! sta’! non senti? Qui, non ti pare? si fa appello agli armigeri; il campanone suona a rintocchi. Usciva allora dal suo palazzo lì presso, tutto chiuso nell’armatura, messer Fredi de’ Vergiolesi, che avendo udito quel dialogo:—Buoni popolani!—avvicinandosi disse loro—col buon dì buona ventura gli è questa che vuo’ contarvi. Sappiate che agli anziani del Comune giungeva da pochi giorni un messaggio del cardinal da Prato molto amico nostro, pel quale si pregava il Consiglio di non voler porre indugio a confermar nelle cariche di potestà e di capitano generale delle nostre genti il valoroso messer Tolosato degli Uberti. E questo atto solenne, in armi tutte le compagnie, si compirà questa mane. —Ah! ecco! così va bene! benissimo!—esclamarono i tre vecchi con la massima gioia.—Viva il nostro gran capitano! Queste esclamazioni facevan soffermare intorno ad essi alcuni giovanetti loro parenti, che per caso passavano con altri amici! e:—Come, come—dissero incuriositi—rieletto proprio il dell’Uberti? A’ quali il più vecchio poggiato ad un bastoncello, fendendo l’aria con una mano, con gravità rispondeva: —Sì, sì. Eh figliuoli! Se non era lui! Prima col suo valore: e badate, ci vuole! poi con la nomea che si è conservato d’un’illustre famiglia: chè, vedete, non ha mai mutato parte: ghibellino sempre! Lui, e lui proprio qui fra noi ci voleva, che non del paese: perchè…. uhm! Dio ne guardi! Ma egli nobile, egli imparziale, mettesse ordine e pace; e temuto da’ nostri vicini, ci desse anche con loro quel po’ di riposo che da un anno e’ si può dir che godiamo. Queste giuste parole le approvavano tutti. Ma intanto avevano inteso una certa nuova, che li affrettava a separarsi: parte per proseguire verso la piazza; i più svelti poi prendendo a fretta pe’ vicoli, chi da un lato, chi da un altro, per esser de’ primi a informarne gli amici. E già i cittadini d’ogni età e d’ogni ceto erano accorsi al proprio armamentario o loggia, che era il corpo di guardia d’ogni quartiere della città; e fornitisi delle armi, ciascuna compagnia co’ lor capitani moveva alla piazza maggiore a porsi sotto il comando del capitan generale. In Pistoia, fino dai tempi de’ Consoli, dodici erano le compagnie del popolo, divise tre per quartiere, e di tutte le persone che dalla prima gioventù alla vecchiezza erano atte alle armi, fossero nobili o popolani. Volevan con ciò che fosse dovere di tutti di custodir la città, perchè i cittadini non si dividessero fra loro in due classi troppo diverse; l’una, la nobilesca, agguerrita, operosa, ma fiera e arrogante, e ministra di tirannie come spesso avveniva: l’altra, la popolare, oziosa ed inerme, e troppo inclinata a una pazienza servile. Perchè infine, dicevano, nissun cittadino dev’essere agli altri terribile, ma tutti insieme farsi temibili ai nemici della patria. Esercito stanziale, siccome adesso, in questo, come negli altri Comuni, in Italia non v’era. Le compagnie armate ne facevan le veci. Potrebbe dirsi che quasi col medesimo ordine e intendimento vedemmo istituita la guardia nazionale mobile nel nostro regno. Che anzi alcuni scrittori, e principalmente inglesi e alemanni, hanno notato, esser la moderna landwehr della Prussia imitata dall’antica Ordinanza della milizia nelle repubbliche italiane; cioè dal tempo della Lega Lombarda fino all’Ordinanza del Macchiavelli, perfezionatore delle passate costumanze. Or mentre la campana del capitano aveva appena cessato, e già la città brulicava di gente che avviavasi in piazza da ogni strada, annunziate dai trombettieri vi si vedevano entrare con bell’ordine e con belle armature le tre compagnie del quartiere di Porta Lucchese, che andavano a schierarsi fra ’l palazzo del capitano e il fianco destro del Duomo. E vi entravano quasi ad un tempo dal lato di mezzodì, e facendosi eco con uno squillo uguale di trombe, quelle del quartiere di Porta Gaialdatica. Dalla ripida via di levante, fiancheggiando il nuovo palazzo della Signoria, poco appresso salivano in piazza i militi del quartiere di Porta Guidi. Dal quartiere infine dell’antica porta di S. Andrea, allor di Ripalta, vi convenivano le ultime tre compagnie: e tutte e dodici portavan diverse e bellissime insegne; e co’ santi protettori della parrocchia da cui si traevano; e con animali e fiori simbolici, ricamati in lana, in seta o in oro a colori vivissimi: tali come i cronisti ce le descrissero e come si vedon dipinte nel magnifico cortile dell’antico palazzo pretorio, ora del tribunale di questa città. In ogni quartiere aveavi una compagnia di arcieri: le altre portavano picche e lance, e alabarde di varie forme e scudi rispondenti alle armi, dalla forma dei quali i militi prendevano nome di tavolaccini o di palvesari. V’erano pure in città un trecento cavalieri coi loro capitani ed alfieri. La ristrettezza del luogo non offriva però assai spazio per ischierarveli e far di sè bella mostra. Infatti la piazza del Duomo, sul lato di ponente, era limitata da una fila di case che a distanza di poche braccia sorgevano parallele ad altre; e dove, dopo 80 anni circa, fu fabbricato il Pretorio con quella semplice architettura che vi si vide fino al 1842; prima che, come di presente, fosse accresciuto d’un piano, e così perdesse in parte del primitivo carattere. Quelle case poi non furono demolite che nel 1311 per ampliare come adesso la piazza. A settentrione, dove ora si vede un’altra fabbrica non finita, detta il Palazzaccio, sorgeva il palazzo del capitano del popolo con l’alta sua torre: ad oriente la chiesa di Santa Maria Cavaliera, e un lato (il sinistro) dell’attuale palazzo del Comune che solo da pochi anni si costruiva: infine, a mezzodì, il lato destro del Duomo. Così la piazza non aveva che quest’unico dei grandiosi monumenti che ora l’abbellano; e come nelle vie principali, in luogo di pietre non v’erano che grossi mattoni a coltello. La cavalleria o cavallata, come allora la chiamavano, era sotto gli ordini del capitano Filippo Vergiolesi. Per mancanza di spazio l’aveva schierata lungo la via di San Giovanni, e solo ne distaccava alcuni cavalieri per far ala e contenere la folla. Gli altri capitani si erano già disposti col Vergiolesi presso al palazzo del capitano generale, Tolosato degli Uberti, ed attendevano che egli giungesse. Non furono che pochi istanti e se ne usciva sopra un bel palafreno, bardato di lucenti brocchieri; egli poi splendido per le armi. Cominciando dall’elmo, con alti e bianchi pennoncelli; usbergo, braccialetti, cosciali e schinieri erano tutti a lamine e squamme di forbitissimo acciaio, con sopra rabeschi d’oro mirabili: il petto poi coperto d’una cotta bianca tessuta d’argento con in mezzo la nera aquila ghibellina. Al suono degli oricalchi, al levarsi in alto dei bei gonfaloni ed agli evviva del popolo affollatosi di ogni intorno, moveva dalla piazza e coi principali dei militi s’avviava al palazzo del Comune. Non già a quel palazzo maestoso del Municipio, d’architettura gotico-italiana, che ora veggiamo, del quale non più che da 10 anni (1295) aveva posta la prima pietra il famoso Giano della Bella, quando, bandito da Firenze e qui riparatosi, piacque ai rettori di eleggerlo a potestà. Era invece l’altro antichissimo che in parte fiancheggia il lato destro di quel bel Battistero che allora da Cellino di Nese da Siena sul disegno d’Andrea Pisano da tre anni si costruiva. Il detto palazzo, che a settentrione non aveva case dinanzi, si estendeva alla piazzetta contigua, or del mercato; dal qual palazzo per certo le venne il nome di Sala. Questo nome, che serba ancora, riscontrasi le fosse dato prima del mille e forse all’epoca dei Longobardi: perchè in questa piazza era una statua di Luitprando XVIII, re loro: e questa di sala, è pur voce longobarda che significa palazzo, corte principale e resedio d’autorità. Qui adunque su quella sua torre, di cui non restan che i ruderi, sventolava a quell’ora il gonfalone del popolo; e nella sala maggiore di detto palazzo, adunati, il gonfaloniere di giustizia coi dodici anziani e i dugento consiglieri del popolo, al capitan degli Uberti, in merito de’ suoi grandi servigi, erano per confermarsi i due maggiori uffici, di capitano e di potestà. Com’egli infatti vi giunse e andò ad assidersi al banco del potestà in mezzo a suoi ufficiali, due damigelli riccamente vestiti recarono in un vassoio d’argento al gonfalonier di giustizia la bacchetta del comando, ch’ei di nuovo consegnò all’eletto. Fu un momento solenne, quando gli astanti, fatto silenzio, udirono, il gonfaloniere rivolgergli gravi parole nell’atto della consegna; essendo che anche questa volta, fuor del costume, si riunissero in lui tre grandi poteri; il civile, il giudiciario e il militare. Allora il degli Uberti si alzò, e con lui tutti; e distesa la destra sul libro degli evangeli che gli stava dinanzi: «giuro (pronunziò a voce alta) di difendere e mantenere la città di Pistoia e il suo distretto secondo che gli Statuti comandano: particolarmente di tutelare gli orfani e le vedove; le chiese e gli spedali e tutte le altre ragioni di religiosi, di pellegrini, di mercatanti, rimosso odio e prego, e tutte malizie da questo dì a un anno.» Quindi i giudici e tutti i suoi ufficiali che gli facevano corona, distese le destre, ripeterono a una voce: «giuriamo!» Dopo ciò, il nuovo eletto disceso col seguito nella piazza, a piede, fra la folla plaudente, si diresse alla cattedrale. Le trombe del Comune squillavano: le campane suonavano a festa. Lo accompagnavano gli anziani, vestiti in lucco di color rosa e ricami in oro, calzatura di scarlatto, e berretta di velluto chermisi guernito di perle e di una candida piuma. Appresso gli ufficiali suoi ed i consiglieri; aggiuntivi ora gli operai di Sant’Jacopo. Procedevano i tavolaccini del Comune vestiti di verde, che, accennando con un’insegna, sgombravano la via. Seguivano i trombettieri, le cui lunghe trombe d’argento erano adorne di una banderuola bianca con in mezzo l’insegna del Comune, la scacchiera bianca e rossa, con fregi e nappe d’oro: ed essi pure in abito di gala, e con in petto una larga piastra d’argento incisavi la detta insegna. Un buon numero di mazzieri con mazze d’argento, vestiti di rosso e di bianco, ne chiudeva il corteggio. Alla porta del tempio, il degli Uberti, ricevuto dal clero, fu da esso accompagnato all’altare di Sant’Jacopo. Là, il venerando vescovo della diocesi, messer Bartolomeo Simibuldi, orando, attendevalo. Un altro giuramento, secondo, gli Statuti, doveva profferire dinanzi a lui. L’opera di Sant’Jacopo custoditrice della celebre sagrestia de’ belli arredi, per le molte ricchezze da amministrare e per la sua dignità, era allora in Pistoia una nuova magistratura. Giunto appena il degli Uberti alla cancellata della cappella, il vescovo lo invitava ad entrarvi. E lì, a piè dell’altare del grande patrono, presenti i detti operai, posta la destra sugli Statuti di detta opera, i quali un chierico sopra un guanciale gli presentava, «giuro, egli disse, di offerire all’altare del messer baron Santo Jacopo un pallio di lire dodici di pisani, il giorno di sua festività.» Allora il prelato solennemente lo benedisse. Uscito di cattedrale, era di nuovo a cavallo in mezzo agli altri cavalieri nella piazza maggiore. Arrestatosi dinanzi al proprio palazzo fra le cittadine milizie che gli facevano ala, un banditore, dati tre squilli di tromba, a gran voce annunziò al popolo che, per volere dei magnifici signori e consiglieri del Comune, messer Tolosato degli Uberti era stato confermato negli uffici di potestà e di capitano generale delle armi. Un grido universale di lieti evviva scoppiò allora da ogni lato. I cittadini erano omai assuefatti a scorgere in lui la propria gloria e la propria difesa! All’uscire d’ufficio di ogni capitano del popolo costumavasi che, quando avesse egli ben meritato della repubblica, il Comune lo presentasse di un ricco dono. Ora, sebbene l’Uberti sull’uscire vi fosse subito confermato, il Consiglio del popolo non volle passarsi di far quest’offerta a un personaggio sì degno. Quand’ecco, com’era dell’uso, venire a lui due giovani delle primarie famiglie sopra bei palafreni, portando in alto l’insegna del Comune. I quali, come gli furono rimpetto, prima agitarono i gonfaloni e li piegarono dinanzi a lui: poi, accostatisi, gli presentarono a nome della città, in due vassoi d’argento che i donzelli del Comune porgevano loro; l’uno un pennone, una targa, una barbuta ed un cappelletto con la corona d’oro; l’altro un mesciroba con otto tazze d’argento; il tutto, come narrano le cronache, della valuta di trecento fiorini. In questo mentre gli alfieri agitarono le insegne, i capitani brandirono le spade, e ogni milite levò in alto le lance e gli scudi, facendo così un saluto d’onore al valoroso lor duce. Rispose egli al saluto; e passate in rivista le schiere, con nobili parole le congedava. Bello e gradito spettacolo fu allora a vedere il marciare animoso di quei militi cittadini nell’uscir dalla piazza fra i lieti suoni delle trombe, e il dividersi come raggi dal centro per tante file, e il luccicar di quegli elmi e di quelle armi, fatte ora più splendide pel sole già alto e promettitore di una bella giornata. Non appena infatti avevano i baldi giovani depositato alle proprie loggie l’armatura e le armi, che i più, ripreso il saio e la cappa, si davano a raccorre le apprestate corone; e ciascuno alla casa della fanciulla che più gli aggradiva, dove non l’avesse fatto sull’alba, si recava ad appendervi il maio fiorito. Nelle famiglie gelosi riguardi per le proprie figliuole, o pregiudizi fra ’l popolo in quel giorno non v’erano. Cotesta si aveva per un’usanza cavalleresca, e come un culto che ogni giovine dabbene intendeva di rendere al gentil sesso. Il costume era pubblico, e nessuno per certo avrebbe avuto a ridirvi. Ma già un maio più bello richiamava su quella piazza l’ammirazione di tutti. Era questo un alberello fronzuto di foglia lucida e sempre verde, che ha nome fra noi d’albatro corbezzolo, e che soleva prescegliersi perchè appariva come simbolo di una continua fecondità, portando a un tempo bianchi fiorellini e picce di rosse frutta. Tagliato al mattino sulla collina presso Vergiole, e sfrondato in basso per circa tre braccia a fine di poterlo portare, era stato pensiero di alcuni giovani di adornarne la chioma con piccole corone e molti mazzetti di fiori, legati con nastri color di rosa dei quali avevano cinto anche il fusto. Si sapeva però che l’apprestamento veniva tutto dalle Compagnie delle arti maggiori e minori; dei medici e degli speziali, ecc.; come de’ cimatori, degli armaioli e degli artigiani della seta e della lana: di questi in particolare in maggior numero nella città. Tutti quelli che vi appartenevano, cotesta mattina gli avresti veduti con vesti di vari colori e di foggie assai strane, e tutti a far capo intorno a bel maio coi lor gonfaloni. Si era deliberato doversi andare a piantare con gran corteggio fuor della porta di Ripalta, sul prato grande di Santa Maria Maddalena, ora di S. Francesco. E infatti come si furono radunati, vi si condussero con quest’ordine. Andavano innanzi, aprendo il corteggio, gli araldi delle Compagnie di ciascun’arte, sopra cavalli bardati in foggie tutte bizzarre, come le vesti loro; parte suonando le trombe, parte i tamburelli; e ciascuno con una piccola banderuola in asta che sorpassavagli il capo, portante l’insegna dell’arte propria. Seguivano poi a piede, riccamente vestiti, i rettori delle arti maggiori coi loro componenti e coi loro gonfaloni, tutti intorniati di fiorite ghirlande. Nel centro appariva il gran maio portato in alto da un nerboruto garzone vestito di rosso, cui facevan corona giullari saltanti che percotevano nacchere e sistri: quindi una schiera di senatori di pifferi, di flauti, di nacchere (una specie di timpani), di cenamelle (stromenti a fiato) e di mandolini. Poi un’altra di sonatori di cembali, di crotali, di viole, di arpicordi, di trombe, di cornamuse, che dividevano il gruppo dei cantori delle ballate. Si chiudeva il corteggio coi rettori delle arti minori, loro consorti e gonfaloni; cui dietro faceva pressa una festante popolazione. Lungo la strada non era tabernacolo sacro che non avesse accesi più lampadari, e non fosse attorniato da festoni di freschi fiori. Costume che in questo giorno nella città si continua sino a’ dì nostri, coi così detti altarini di maggio. Non v’erano balconi che non si vedessero adorni di tappeti e di ghirlande, e gremiti di spettatori. Fra i quali vi facevano bella mostra le gentili donne, che coi loro sorrisi davan segno di saluto e di compiacenza alla sollazzevol brigata. Inoltratisi poco fuor della porta, verso il mezzo di un’ampia e verde prateria tutta fiori di primavera, ivi come in suo degno luogo stabilmente collocarono il maio. Subito un gran cerchio vi si formò torno torno dalle genti delle Compagnie. E allora i suonatori, che vi stavano in prima fila, diedero principio ai concerti. Una schiera poi di giovinetti, con vesti a vita e a striscie bianche e rosse e berretti piumati, incominciò su quei suoni a modulare questa graziosa canzone. Era di Guido Cavalcanti, e diceva così: Ben venga maggio E il gonfalon selvaggio! E a me consenta Amore Di primavera mia Goder l’almo colore, Goder la leggiadria Quanto l’occhio il desia, Quanto più splende il maggio. Or mentre fra gli evviva i più lieti, era ripetuta e avvicendata con altre strofe e coi ritornelli degli strumenti, ognuno, ascritto alla Compagnia delle arti, profittava del privilegio di staccare dall’albero un mazzetto di fiori, lasciandovi le corone che v’erano poste per ornamento. E allora avresti veduto quei giovani penetrar fra la folla per adocchiar le fanciulle più loro simpatiche e più avvenenti (in quel giorno tutte ben messe in abito da festa e cinte il capo di fiori) e offrir loro il mazzetto. Bisogna dire che chi fosse stato in quell’ora su i bastioni delle mura vicine, vi avrebbe goduto del più bello spettacolo. Per quella gran prateria primieramente un brulichio di gente infinita; ma un agitarsi senza disordine; come un cantare e gridare, e qua un suon di trombe, là di tamburi; ma quei canti e quei suoni e tutto quel movimento non essere infine che una viva espressione di gioia. Sarebbe stato un vedervi sorgere qua e là banderuole infiorate, quasi tanti punti di centro: e trabacche di venditori di vino e di commestibili, dove il popol minuto già s’accalcava; perchè d’ogni parte e di continuo andava crescendo, tanto più per que’ che giungevano dalle vicine campagne. Non vi sarebbe stato dentro le mura un luogo sì ampio per raccogliervi tanta gente, benchè allora anche più vasto di quel che adesso. Perchè questa storica piazza non aveva in quel tempo per confine a sinistra che la gran chiesa di S. Francesco, però non compiuta, essendo in costruzione da soli 10 anni (1294). Sul lato destro non eravi alcuna casa, tranne una chiesetta di S. M. Maddalena giù in basso, con poche case del sobborgo, racchiuse poi nel terzo cerchio. Non aveva, gli è vero, nè un terrapieno arborato, nè la regolarità che adesso; acquistava però una certa vaghezza dalla sua maggiore estensione, e dalla cura che si aveva, che, destinata fin da antico a’ tornei, alle giostre e a’ pubblici diporti, vi fosse il prato ben mantenuto; e gli alberi, sebbene in gruppi irregolari dai lati ed in fondo dove il terreno più rialto si prestava al riposo, gelosamente vi si conservassero. Non essendo poi limitata, come ora, dalle mura urbane, era bello potervi scorgere fra mezzo le piante le più fronzute l’aperta campagna fino alle circostanti colline, e godervi così il vario e quasi sempre sorprendente spettacolo del sole al tramonto. Era già oltre il mezzo del giorno e il cielo non poteva esser più limpido e l’aria temperata di più mite calore. La gente raccoltasi a gruppi qual sotto gli alberi o sotto le tende, omai posava sull’erbe e su i fiori, e si rallegrava al sorriso delle sue donne e al comune tripudio. Era questa, può dirsi, la festa più popolare di quella stessa, benchè più solenne, ma più nobilesca, del loro patrono il messer barone Santo Jacopo. Colà tutti mangiavano e bevevano insieme, e intonavano le più allegre canzoni. Dalle Corti, come già in Sicilia, la poesia in Toscana era passata fra ’l popolo. Il suo carattere, in ispecie qui, fu un commisto d’arte pudica e di naturalezza, finchè il reggimento fu democratico, e geloso del buon costume. Solo i poeti che succedettero, imitando servilmente il Petrarca, impoveriron d’assai l’espression dell’affetto. Nè solo prevalse lo spirito pedantesco; ma alle caste canzoni di Dante, di Cino, e del Cavalcanti, cui s’informarono certi canti popolari toscani, tenner dietro le spensierate ed epicuree di Lorenzo il Magnifico, e di altri nell’epoche posteriori. Nè è meraviglia; se si rifletta che prevalenza fino dal quattrocento ebbe in Toscana la letteratura greca e romana; e più che al buono ed al bello che vi splendeva, si tenesse dietro al licenzioso costume del paganesimo. Ma poi, perchè anche questa delle straniere signorie era arte di regno;—corrompere per dominare!—e la corruzione delle lettere e de’ costumi preparò allora, e preparerà sempre la servitù! Invece, al tempo di che parliamo, fra un popolo libero e di nobili sensi, non udivansi intonare che canzoni gentili. Qua un drappello di giovinette cinte il capo di fresche rose, adagiate in famiglia su molle strato e alle bell’ombre, cantava sul liuto una ballata di messer Cino; là un’altra di Guitton d’Arezzo. E d’appresso, sopra un pratello rialto ed ombrato, amorosi garzoni rispondevan loro con quelle dell’Alighieri: «Donne che avete intelletto d’amore». Tutto spirava serena giocondità. In cielo e in terra, dovunque parea festa e contento. In varie parti accanto alle trabacche de’ venditori de’ commestibili, o d’ornamenti e gingilli, si faceva un largo di persone, dentro del quale avresti veduto un saltimbanco dar prova d’agilità delle membra; ora piegandosi in strane guise, ora saltando e facendo lazzi per destare l’ilarità. Qua un conduttore di cani, che ritti su due piedi li tenea giocolando, e un’accorta scimmia in farsetto rosso buffoneggiava proprio d’intorno. Là una gran gabbia dove si facevan veder pappagalli di vari colori, che sia con l’aspetto o con li strani lor gridi (a male agguagliare come certi uomini) facilmente per poco danaro pascevano la curiosità de’ più gonzi. Di già era l’ora che al suono allegro degli stromenti, e per una piccola moneta ai sonatori, si concedeva a ciascun popolano di fare cinque o sei giri di frullana o di veneziana, di moresca o di trescone intorno al maio con la propria donzella. La cerchia degli astanti soleva ogni tanto far plauso ai più agili danzatori: in specie quando in quest’ultimo ballo precipitoso si vedevan confondersi vesti di mille colori, e volti di grazia e di colore modesto, e chiome brune e bionde all’aura sparse, e occhi vispi e lucenti apparire e sparire in que’ vortici. E a godere di queste danze soleva intervenire negli anni lieti anche la classe de’ nobili. Nè questa volta mancarono. Importava loro, or più che mai, per quanto l’abituale orgoglio in molti pur sempre vi ripugnasse, di mostrarsi al possibile più popolari: sì perchè era stata lor contrapposta, per conseguire gli uffici, la istituzione delle arti: sì infine per mantenersi il popolo sempre più fermo e fedele al loro partito. Per lo che a quell’ora vespertina li avresti veduti incamminarsi a brigate fuor della porta; e per cortesi modi e parole, via via farsi largo di mezzo alla folla. In una di tai brigate era anche il gentil poeta Guittoncino, poi detto sempre Cino de’ Sinibuldi. Inoltratosi fra la gente insiem con gli amici, si trovò dinanzi a un gran circolo di persone; dove, in mezzo e presso un’asta piantata in terra con la insegna della scacchiera (lo stemma del Comune, come abbiam detto), vedevasi un giullare, vestito a scacchi per far più breccia nel popolo; con strana berretta rossa, ed in più colori la veste; con la viola da tre corde che gli pendeva dal collo, ed il bossolo della questua dalla cintura. Cotesta razza di buffoni e di cantastorie brulicava per tutta Europa. Campavano generalmente alle spalle dei gran signori, o dei Comuni (e anche quel di Pistoia ne aveva allora uno suo, denominato Gazzino) ed erano il trastullo di tutte le Corti bandite. Recavano da un paese all’altro novelle di pubblici casi e privati, in mancanza di gazzette e di chiacchiere a stampa; e per questo, e perchè con arguti motti pungevano e destavano il riso, erano, si sa, accarezzati da tutti. Nelle parti però di Toscana, dove il feudalismo, più che altrove, andava scemando, e Corti non v’erano, se ne contavano pochissimi. Costui infatti era venuto di Lombardia e dimorava da qualche tempo in Firenze. Il quale, come seppe di questo straordinario concorso, vi venne subito per tentare un guadagno. Eccolo là infatti, che, dopo aver raccontato le novelle ed i romanzi più strani della Tavola Rotonda e di Guerrin meschino, si aggirava col bossolo fra gli astanti, e, dandosi a questuare con lazzi e parole le più scimunite, aveva raccolto di già buona messe; ma qualche altro tornagusto gli bisognava per alletare. E credette di averlo trovato col cantare alcuni versi di Lemmo da Pistoia, uno degli ultimi e più amabili trovatori che allora vivessero. Annunziava con magnifiche parole, e per far più colpo, essere questi versi di un pistoiese, e messi in musica da quel Casella, eccellente cantore e maestro in quest’arte, e l’amico del famoso poeta Alighieri. E la canzone, ch’ei stava cantando, incominciava così: «Lontana dimoranza Doglia m’ha dato al cor lunga stagione.» Ma, come messer Cino l’ebbe udito alcun poco, preso da sdegno di sentirsi guastare con un accento il più strano e con indicibili storpiature quelle belle melodie e que’ versi di Lemmo amico suo, non potè regger più oltre. Si fece innanzi al tristo giullare, lo riprese aspramente, e gl’impose silenzio. Non è a dire se plaudissero tutti, in particolare le nobili donne a questa difesa del buon trovatore! Quando poco discosto un altro spettacolo attraeva la loro attenzione. Trattavasi di un astrologo, che si spacciava anche per alchimista e gran fisico. Montato sopra una tavola ingombra di barattoli, era appariscente per la sua nera veste talare, listata di rosso col campo a stelle d’oro, pel suo alto cappello nero a guisa di cono, e per una gran barba che gli scendeva fino al petto. Con una bacchetta, che dicea misteriosa, accennava da prima un gran libro tenuto aperto nella sinistra, che vantava contenere i più rari segreti di quel celebre Zoroastro, inventore dell’arte magica. Ivi, secondo il sistema di Tolomeo, erano delineati i pianeti: ed ei ne dava ad intendere le virtù e gl’influssi sopra il globo terraqueo (immobile, com’ei diceva) e sopra gli uomini: potere ed influssi comunemente creduti anche dai più colti di quell’età. Certo che per vane ed ampollose promesse non avrebbe ceduto in ciarlataneria ai prestigiatori, ed ai medium dello spiritismo dei nostri tempi. Ma quel che aveva da destare una certa curiosità, era una cassetta con una gran collezione di pietre preziose e di gemme, delle quali come amuleti già fino ab antico fu fatto grande uso in Oriente, d’onde la gran quantità di pietre incise, che ancora ci avanzano, della China, dell’Assiria e di Babilonia, e che egli poi di tutte queste, secondo la teoria, che in allora correva, del provenzale Pietro de’ Bonifazi, ne indicava le particolari virtù. Or via via additando con la bacchetta ciascuna, così cominciò a dire: —Vedete! Il diamante ha virtù di render l’uomo invincibile; l’agata d’India o di Creta lo fa buon parlatore; l’ametista resiste alla ubriachezza; la corniola pacifica l’ira e le pubbliche liti; il giacinto provoca il sonno; la perla reca allegrezza nel cuore; il cammeo vale contro l’idropisia quand’è intagliato; il lapislazzuli posto al collo de’ fanciulli li rende arditi; l’onice d’Arabia e d’India rintuzza la collera; il rubino, sospeso al collo quando si dorme, caccia i pensieri fantastici e noiosi. Affermava che se l’uomo sarà casto avrà sperimentato la virtù del zafiro e del sardonico: lo smeraldo tien viva la memoria e rende l’uomo giocondo; il topazio (chiamato da Plinio crisolito o pietra d’oro) raffrena l’ira e la lussuria; la turchina ci guarda dalle cadute. Ti vuoi rendere invisibile? hai l’elitropia; preservarti dai pericoli? hai l’aqua marina. Il corallo si oppone alle folgori, e l’asbesto al fuoco. Aggiungeva che il berillo fa innamorare; il cristallo estingue le sete dei febbricitanti: la calamita attrae il ferro, e finalmente il granato reca gioia e contento. Dopo questa gran filastrocca di prodigiosi trovati per raccogliere intorno a sè gli avventori, veniva alla parte per lui più stringente, offrendo in vendita a ciascuno certi suoi particolari specifici. Si sbracciava a narrare quanti mai ne avesse spacciati a Firenze; tanto che si augurava in Pistoia un esito non men fortunato. Ma il vero volpone per guadagnarsi denari e partigiani era giunto in mal tempo. La turba de’ gonzi, in specie della campagna, che potea dargli ascolto e comprare in suoi farmachi, era quasi tutta avvinazzata; e tranne che di liquori e di canti, a quell’ora potevi sgolarti, non volea saper d’altro. Sicchè deluso del suo guadagno, irritato che i più attendessero al giullare vicino, si rivolse al circolo del rivale, e a quell’insegna del Comune di Pistoia (la scacchiera) che eravi eretta, e come in tono profetico in questa guisa esclamò: —Bene sta! gioite, gioite! Ma io leggo già nelle stelle; e su quella scacchiera in luogo di un cavallo e d’una torre, vi scorgo un leone e una pantera; (voleva alludere al Leone di Firenze, e alla Pantera di Lucca) e i giuocatori azzuffarsi e venire al sangue, e… e… —E che vuoi dirci con questo, eh?—interruppelo un popolano che s’era accorto dell’infausta metafora. —Venisti forse a portarci il malanno? Fuori di qua, brutto uccello di tristo augurio. —Fuori, sì, fuori!—un dopo l’altro, e poi un grido di tutti. —Fuori, e t’affretta!—soggiunse un nobil messere—o ti faremo far la fine del tuo insatanassato Guido Bonatti. Qui non si vuol Guelfi a insultarci! —Non si vuol, non si vuole! ammazza, ammazza!—da’ più risoluti si cominciò a gridare. E già qualche stile era uscito dalla cintura, quando a un tratto s’udì esclamare: —Eccoli! eccoli! —Dove? chi sono?—si ripetè in un subito da mille voci: e non altrimenti che in un campo di grano le spighe sommosse dal vento, fu un piegarsi di mille teste da’ berretti rossi o dalli scuri piumati, e andar tutti verso una parte. Distratta così l’attenzione di costoro per altro lato, bastò l’incidente per dar tempo al mal capitato impostore per chiuder la cassetta, porre tutto in un sacco, e svignarsela a gambe. Intanto quell’onda imponente di popolo spingendosi in giù per consenso fino dall’alto della prateria, come trovasse una diga venne ad arrestarsi allo sbocco della via del sobborgo. Ma chi eran coloro che potevano così all’improvviso richiamar l’attenzione e gli sguardi di tutti? Lasciato il proprio castello per tornare in città, appunto in quel momento v’entrava a cavallo, e passavasi in fondo del gran piazzale la famiglia de’ Vergiolesi. Una vera dimostrazione di general gradimento l’accoglieva sul suo passaggio. Ell’era amata e reverita generalmente: perchè fra le pistoiesi, se non delle prime per larghezza di censo, certo era delle più nobili per blasone, in que’ tempi di qualche prestigio; ma poi insieme delle più popolari per affetto operoso alla testa del partito de’ Bianchi, quello dell’intera città. Procedeva la cavalcata con innanzi i tre figli: di seguito il capitan messer Lippo, e a sinistra sua moglie, su due magnifici morelli: dietro, in due coppie, i quattro loro scudieri. Nell’inoltrarsi fra tanta gente, e fra le voci di giubilo che s’udivano d’ogni parte, anche i cavalli si mettevano in brio: e a stento si sarebbero frenati, massime quelli dei giovani, due vivacissimi baio-fuocati, se non avessero avuto così validi cavalieri. Ma popolo e nobili che li attendevano, la gioventù in particolare tutt’accorsa sul loro passaggio, non rifinivano di salutare que’ che venivano in prima fila, cioè a dire, gli amabili cavalieri messer Fredi, e messer Orlandetto, e in mezzo loro Selvaggia, la gentile sorella. Cavalcava essa con baldezza e leggiadria singolare un generoso destriero bianco come la neve, che quasi consapevole del pregio di colei che portava, caracollando, scoteva altera la testa, ma senza darle ombra di minor sicurezza. Un semplice abito di tessuto in lana color di rubino, stretto alla vita, dalla cui cintura di cuoio lucido con borchie dorate pendeva una borsa di velluto verde trapunta in oro: in testa poi una berrettina di velluto nero con bianca piuma da un lato, da dove un velo bianco le scendeva sugli omeri e in balia dell’aria si sollevava, davano maggior risalto alla bella persona. Inchinavasi ella in passando agli amici della famiglia, e insiem co’ fratelli pareva dicesse loro con gioia: «A rivederci a questa sera.» E fu notato come il saluto fra Selvaggia e messer Cino fosse ricambiato vivissimo, e quale fra chi con gran desiderio si cerca e s’incontra. Chè molti omai si erano accorti dell’affetto particolare del giovine verso di lei: e certi anche amici, o per invidia, o per poter dire di aver interpretato alcuni suoi versi, lo reputavano il fortunato amatore. Or mentre una sì lieta accoglienza li accompagnava fino alla porta della città, il baccano, il tripudio e i canti del popolo crescevano a dismisura. E già, fatta sera, si vedevano accendere qua e là per l’estensione di quel vasto terreno alcuni falò, e i briosi ragazzi porvi su delle stipe, attizzarne il fuoco, e schiamazzarvi d’attorno. Intanto poco a poco la gente abbandonava il piazzale e tornavasi alle sue case: molti poi della campagna in grande allegria tenevan dietro a brigate di cantamaggi e di sonatori. I quali, durante cotesta notte e fino alla prima alba come in quella decorsa, andando per la pianura o scavalcando poggi e colline, si recavano a far serenate, e a piantar maggi di casolare in casolare, d’un villaggio ad un altro, innanzi alle case di vaghe fanciulle: per parte, s’intende, de’ loro dami, che solevano guidarveli, e che al poeta improvvisatore indicavano il nome di esse, e il tema di lode per la famiglia. Quegli stessi falò come segni di gioia si vedevano giro giro pel territorio, in piano ed in poggio. E fra tante castella che tenevano parti diverse, benchè il contado molto dipendesse dalla città, poteva dedursi da quelle baldorie la indicazione de’ luoghi dove abitava la famiglia od un popolo del partito de’ Bianchi e de’ Ghibellini. CAPITOLO IV. AMORE E DANZE. «Vidi. . . . . . . . . . Gente che d’amor givan ragionando. . . . . . . . . Ecco Selvaggia, Ecco Cin da Pistoia.» ———— Petrarca nel Trionfo d’Amore. «Vedete, donne, bella creatura Com’ sta fra voi maravigliosamente! Vedeste mai così nuova figura, O così savia giovine piacente? Ella per certo l’umana natura E tutte voi adorna similmente; Ponete agli atti suoi piacenti cura, Che fan maravigliar tutta la gente. Quanto potete a prova l’onorate, Donne gentili, che ella voi onora, E di lei in ciascun loco si favella. Unque mai par si trovò nobiltate, Ch’io veggio Amor visibil che l’adora, E falle riverenza, sì è bella!» ———— Sonetto di M. Cino per Selvaggia. In quella parte più elevata della città di Pistoia, quasi rimpetto all’antica chiesa di S. Prospero, ora detta di S. Filippo, sorgeva la casa de’ Vergiolesi. Era essa, con le più di quel tempo, tutta fabbricata a mattoni senza intonaco o tinta qualunque: con alcune scorniciature dei medesimi alle finestre di sesto acuto, e con grandi archi di pietra che mettevano alle sue logge. Solevano queste, di facile accesso perchè al pian terreno, servir di convegno ai cittadini per novellare, giuocare a tavole, a scacchi, o per negoziare di faccende pubbliche e di private. Nelle case de’ magnati era qui dove in prima i forestieri si ricevevano, e gli uomini d’arme della famiglia vi dimoravano come di guardia. Una parte di quell’architettura che avea del grandioso, potè vedersi anco a’ dì nostri, finchè la moderna industria, gretta per lo più anche ne’ pubblici palazzi, non ne tolse quasi le tracce. Solo adesso la pubblica coscienza per quelli antichi e monumentali ha gridato: «Se non siamo da tanto da poterne erigere de’ somiglianti, che almeno, a documento di storia d’un popol grande, si sappiano conservare!» Quanto a questa casa, ad attestare che ivi era, non vi rimane adesso che lo stemma della famiglia a bande trasversali, e nell’interno un avanzo della sua torre. Tutto quel fabbricato, fino all’antica chiesa di S. Biagio può dirsi essere stato un castello presso alle mura del primo cerchio, ed era in quel tempo di pertinenza di messer Lippo de’ Vergiolesi. All’un’ora di notte di quel primo di maggio questa casa splendeva già torno torno di faci, e molti panegli ardevano fin sulle cime della sua torre. Nel cortile come nella loggia si vedevano alcuni uomini d’arme dipendenti dal suo signore. Molta gente andava e veniva per quella via, anche uomini e donne della campagna; perchè cotesta notte, seguitando la festa, i ponti levatoi delle porte della città v’era ordine non dovessero alzarsi. Si soffermavano incuriositi, come suol farsi dal popolo per ogni insolita cosa, e scorgevan di già dai piccoli vetri delle finestre illuminata una fila di stanze a maestro, fino alla gran sala che volgeva a ponente. Stavano nelle anticamere li scudieri ed i servi della famiglia; pronti questi ai comandi; quelli ad annunziar gl’invitati introdotti nelle sale di essa. In una di queste, la più prossima alla gran sala, erano intorno disposte molte sedie a bracciali, guernite di velluto a colori diversi; belli stipi intarsiati di legni rari e di pietre preziose con sopra vasellami di freschi fiori. I torchietti pure che la illuminavano eran cinti di fiorite ghirlande, conforme il carattere della festa. Là sopra una di quelle sedie, dove nel dossale si vedeva trapunto in seta e in argento lo stemma dei Vergiolesi (uno scudo a sbarre trasverse bianche e celesti), vi si trovava adagiata una gentil donna. Un abito di drappo oltramarino dai colori dello stemma gentilizio, tessuto a fiorami d’oro, con le maniche chiuse al polso; una berretta di velluto chermisi guernita di grosse perle; cintura e fermagli ricchissimi, la designavan subito per una nobile dama. Infatti era essa madama Adelagia consorte del capitan Vergiolesi. Benchè innanzi con gli anni, serbava pur sempre nel volto le tracce della prima avvenenza. L’animo poi sì affettuoso per la famiglia e a tutti indistintamente cortese, le avea conciliato e le manteneva la riverenza d’ogni classe di cittadini. E già alcuni degl’invitati le facevan corona. Fra questi, favellando col suo Orlandetto, si vedevano nobili damicelli in veste color cilestro o rosato, con in mano piccolo berretto rosso, giubboncino di raso, e calzoni a due colori stretti alla gamba. Allorchè fra di loro col fratello ser Fredi giungeva Selvaggia. Vestiva essa un bianco abito serico, stretto alla vita con cintura d’argento ed un aureo fibbiale. Una sopraveste egualmente serica cilestrina con grandi maniche aperte dal gomito al polso, e sopravi bottoni e ricami d’oro, ne arricchivano l’ornamento. Oltrechè sul confine delle candide braccia le si avvincevano due smanigli con perle, che pure a un sol filo le pendevano dal collo. Un serto cesellato in argento le cingeva la bianca fronte, e le teneva raccolto il bel volume de’ suoi capelli, sì biondi che parevano fila d’oro, e a grandi ricci le cadevan sugli omeri. Il suo volto era bianco rosato. Gli occhi, Cino stesso cel dice, eran soavi e pien d’amore. Alta della persona, snella e dignitosa a un tempo nel portamento. Disegnandone le belle forme, potea dirsi che ritraessero di tutta la grazia greca. La sua voce financo, nè troppo esile, nè troppo grave, le usciva con un suono sì dolce e sì melodioso da farsi udir per incanto. Cotali pregi si piacevano d’ammirare l’invitati alla festa nella nobile figlia del Vergiolesi; quando li scudieri vennero annunziando le une poco dopo le altre, co’ lor cavalieri consorti e famiglie, madonna Oretta de’ Panciatichi; Imelda e Viola di messer Rinieri de’ Cancellieri di parte Bianca; monna Alagia degli Uberti; donna Fiore de’ Gualfreducci; donna Ghisola de’ Lazzari; monna Bice de’ Muli; Dialta de’ Tedici; Finamore de’ Sodogi; Lieta de’ Reali; donna Porzia de’ Rossi; donna Lauretta di Laute de’ Sinibuldi, l’amica intima di Selvaggia, e le donzelle cugine sue Vergiolesi, Lamandina, Guidinga, Matelda, Albachiara e Argenta. Queste con alcune altre, quasi che tutte della classe de’ maggiorenti, per avvenenza, per ricche vesti e per sfoggio di gemme d’ogni maniera, facevano bella mostra: sfoggio già andato tant’oltre a danno della domestica economia, che dal Comune, co’ suoi Statuti suntuari, fino a certa misura si tentò d’impedirlo. Da messer Fredi eran quindi presentati alla madre i principali banchieri della città; gli Ammannati, cioè, i Visconti, i Reali, i Chiarenti, i Panciatichi. Eran costoro una potenza nel paese, e una fonte di floridezza pe’ grandi cambi e negozi che facevano in Italia e fuori. Basti il dire che la banca reale degli Ammannati, tre anni avanti volendo assestare i suoi conti, aveva interposto il pontefice perchè da Odoardo re d’Inghilterra fosse sodisfatta di centocinquantamila fiorini d’oro, dei quali egli era debitore a detta ragione. Le venivano presentati pur anche i capitani delle compagnie del popolo, e altri ufficiali del Comune col suo gonfaloniere di giustizia. Nè mancava fra loro il nuovo potestà e capitan degli Uberti, cui primo messer Lippo offerivasi innanzi, grato dell’onore che gli recava. Non è poi a dire con quanta squisitezza di cortesia si volgesse a tutti Selvaggia o con parole o con atti. Or mentre in lieti crocchi ciascuno a piacere si tratteneva, Selvaggia aveva preso a favellare con le giovani cugine, e pareva che molto si rallegrasse. Ma chi però le avesse letto nel cuore, vi avrebbe scorto non altro che uno sforzo di compiacenza; e a un tempo uno sgomento, una pena, che rivelava talora col guardo inquieto come di chi cerca ansiosamente qualcuno. Eppure in quell’istante quel suo desiderio lo divideva con molte di quelle dame! Omai si sapeva il ritorno inatteso di messer Cino. Chi avrebbe mai pensato ch’ei non fosse dei primi alla festa! Perchè, come dicemmo, non era ignoto l’affetto scambievole fra Selvaggia e il gentile poeta. E se egli è vero che la lunga assenza d’amata persona ne cresce la brama, può argomentarsi se ella bramasse di rivederlo! Egli, il suo Cino, toccava appena sei lustri. Alto della persona, il volto lungo ed espressivo, occhio, vivido, perspicace; preveniente di modi e parlatore leggiadro; egli di nobil casata, che ebbe fra gli avi un console della repubblica, potestà e capitani; e di quegli anni l’onorando vescovo della città. Oltrechè era in lui merito de’ più pregiati a quei tempi, quel di legista. Passava di già per un dei più degni fra i discepoli de’ celebri professori, Dino Rossoni ed Accursio: e adesso tornava in patria dalla Università di Bologna col titolo onorifico di baccelliere, che lo abilitava alla giudicatura. A farlo anche più accetto al gentil sesso conferivano molto i suoi meriti letterari. Si sapeva oltracciò come negli ultimi mesi ch’ei fu a Bologna si fosse legato d’amicizia non che di concetti politici (lo che ivi fra i Bianchi era grato) col grand’esule Dante Alighieri che al partito dei Guelfi bianchi inclinava, e del quale già si conoscevano alcuni canti dell’Inferno. L’amicizia con gli uomini rinomati dà sempre un prestigio e una compiacenza. E certo doveva essergli di bel vanto l’avere ad amico un sì sublime intelletto, che Cino appellava diletto fratello e signor d’ogni rima; e cui per la morte della sua Beatrice dedicò un’affettuosa canzone. Già fin dai primi anni era stato fra loro un ricambio di dolci versi. Pensiamo poi quanta fosse la compiacenza di messer Cino nel sentirsi chiamato da quell’alma sdegnosa e parca dispensatrice di lodi, dopo del Cavalcanti il secondo de’ suoi amici! Nel suo Volgare eloquio esser detto uno di quelli che più dolcemente ebbero scritto di poesia; che dirozzaron la lingua, che la ridussero districata ed egregia, civile e perfetta; e infine cantor d’amore esser nominato da lui! E sì veramente l’amore, e l’amor di Selvaggia (e ben ce lo attesta il suo Canzoniere) gl’ispirarono i versi, e quel dolce stil nuovo che differenzia i poeti dai trovatori. Perchè, per quanto i menestrelli e i trovatori siciliani alla Corte di Federigo a Palermo, (e si aggiunga pure i molti che vi convenivano di Toscana, dove eran già noti alcuni scrittori di versi italiani), fosser dei primi a vocalizzare, quasi diremo, la italica lingua su i lor liuti con serventesi e ballate amorose; le fu d’uopo d’esser dirozzata, di farsi pura e gentile, e di esplicare infine tutte le doti che in sè chiudeva di forza, varietà e armonia; lo che non certo le era nè le fu concesso fra un popolo che in generale sentiva ancora dell’arabo e del saraceno; con un Governo dispotico, e che solo per incidenza e per pochi anni ebbe un re dedito alla musica e al poetare; ma potè solo in Toscana e con stabile fondamento, fra un popolo per ingenita disposizione più gentile, con ordini liberi, e il più progredito di civiltà. Ora, sia per mente e per cuore era Cino in quel tempo uno degl’ingegni più eletti. Nè l’amor suo fu già ideale e fantastico come quello de’ trovatori amanti di professione. Sebbene rivelato con le forme della scuola platonica, era nobile, caldo e verace. L’aveva accolto in cuor suo già da qualche anno; sicchè da quel dì, com’egli ne scrisse, null’altro chiedeva che In lei poner la mente Poi di ritrarne rime e dolci versi. Angel di Dio somiglia in ciascun atto La sua giovine bella. Da lei si muove ciascun suo pensiero Perchè l’anima ha preso qualitade Di sua bella persona. E ciò fin da quel tempo Che gli occhi suoi gentili e pien d’amore Ferito l’ebber col dolce guardare. Nobile era l’affetto che portava a Selvaggia. Lontano, non altro bramava che di rivederla, dicendo che La sua dolce accoglienza Gli cresceva l’intenza D’odiare il vile, e d’amar l’alto stato. Pregiato vanto d’amore, che ogni donna di accorto e delicato intelletto dovrebbe piacersi di riportare. E cotal vanto ebbe Selvaggia sul suo messer Cino; perchè egli addivenne primo in quel tempo fra i maestri di diritto civile, ed egregio fra i più gentili poeti. Nè questo culto della poesia disdegnavano allora in Italia le nobili donne. Venturose anzi e felici pubblicamente si dicevano quelle che lo avessero meritato. Fra le quali, prima è da porre Beatrice de’ Portinari, donna di virtù piuttosto singolare che rara, come colei che seppe ispirare il sublime cantore della Divina Commedia. E come già innanzi la Nina siciliana di Dante da Maiano, verseggiatrice del pari che la gentil donna Gaia figlia di Gherardo da Camino, nominata con onore dall’Alighieri; quindi si novera la Vanna del Cavalcanti, la Lauretta del Montemagni, la Laura del Petrarca. Di Selvaggia poi potea ben dirsi che fin dai primi anni quella sua gentil alma fu tocca da una straordinaria visione del bello, di cui Cino le apparve effigiatore nelle sue dolci rime. Ma sì era modesta dell’animo, che, per quanto affetto nutrisse in cuor suo, non comportava però che ei nel pubblico e con pubbliche lodi lo palesasse. Tale è il concetto d’un suo madrigale che si legge fra le rime di messer Cino. Ella di nobil gente, di squisito intelletto d’amore, ben s’addiceva che con l’arte del canto e del toccare il liuto, si fosse data a coltivare le lettere rifiorenti allora in Italia, e nobil palestra d’ogni civile persona. Angelica creatura veramente era essa. Una di quelle, che in tempi di feroci passioni e fra uomini discordevoli, pure, umili, e in sè raccolte, erano destinate a molto soffrire per tentare di ricondurli a più miti affetti, al perdono, alla pace. Questo carattere di bontà, cotesta sera forse anche più attraente le appariva nel volto. Frattanto in quella sala, dove molto era già il concorso degl’invitati, s’udì profferire il nome di messer Cino de’ Sinibuldi, e gli occhi di tutti si volsero verso di lui. Adornava la svelta persona una veste che era il lucco di velluto chermisi serrato alla vita, e stretti pure i calzoni d’ugual colore, con al fianco una ricca cintura, da cui pendeva la spada. Teneva in mano una berretta del detto velluto, da cui, com’era dell’uso, scendevano dai lati due piccole bende. L’andar suo era franco: il suo sguardo riservato e cortese. Giunto dinanzi a madonna de’ Vergiolesi, —Eccovi il reduce amico nostro!—disse subito messer Lippo, presentandolo alla consorte e alla figlia. —Che siatevi il ben tornato!—con molta grazia gli si volgeva la nobil madonna. E Selvaggia alquanto arrossendo: —Oh sì! veramente vi aspettavamo! Cui egli:—Nulla mai di più caro di sì compita accoglienza! Dopo ciò fu un udire come sopraffatto le loro congratulazioni, quelle de’ giovani Vergiolesi e degli altri amici: a’ quali tutti rispose con ugual cortesia. Assente da qualche anno, ben è da credere con qual contento fosse tornato fra sì care persone, e si trovasse poi dinanzi a colei che era in cima de’ suoi pensieri. Salutò quindi le altre nobili dame: molte delle quali com’ambissero di piacergli, lo colmavano di cortesie. Si diedero infatti a lodarlo innanzi a Selvaggia di avere imposto silenzio al giullare di piazza, che spropositava in frasi ed in voci i bei versi di Lemmo. —Io—disse loro—volli impedire lo strazio della canzone del mio buon amico. Mi son troppo cari quei versi. —E vorreste dirmi la canzone qual era?—gli chiedeva Selvaggia. —Quella—ei rispose—che incomincia: Lontana dimoranza, Doglia m’ha dato al cor lunga stagione. —È sì bella e consuona tanto co’ miei sentimenti!… E in questo, mess. Cino affissò con un guardo di tale affetto Selvaggia, che ella abbassò gli occhi e non seppe che dire. A chi avesse ignorato i legami che già avvincevano que’ due giovani cuori, da quello sguardo, e da tal commozione avrebbe detto che l’amor loro avesse allora principio. Rompeva il silenzio la buona madre e diceva:—È la canzone che più spesso suol cantar sul liuto la mia Selvaggia. Melodìa sì soave mal si comporta di sentirla guastare. E voi, anche come amico di messer Lemmo, a ragione ne prendeste le parti. Ben vi lodano le nobili donne, chè l’opera è generosa e degna di voi, messer Cino! —Questi versi—riprendeva Selvaggia—belli di per sè, messi poi in musica da Casella, ricordo che io li ebbi in dono da Lemmo stesso, e non so dire quante grazie gli resi, e come gli ho sempre cari, venutimi da tanto autore! In questo appunto messer Lemmo compariva fra loro. E udito il soggetto del lor ragionare, se ne mostrava obbligato in special modo a Selvaggia. Poi con affetto il più vivo si stringeva al seno l’amico Cino. Intanto una musica a ballo, ma lenta e soave, s’intonava dall’orchestra nella gran sala vicina. Selvaggia e la madre fecero invito ad entrarvi: e i cavalieri, presa per mano ciascuno una dama, vi s’introducevano, e davan principio alle danze. A quella introdotta da messer Cino che rinnovavagli cortesi parole sulla difesa di Lemmo, egli con certa ilarità: —Ma che volete!—rispose—abbastanza prendono occasione di strapazzarci, noi, poveri trovatori di rime! —Trovatori però anche d’amorose e felici avventure!—soggiunse essa, e con tal malizietta, che l’uno e l’altra lasciaronsi con eloquente sorriso. La sala, dai gravi soffitti, con intagli dorati, brillava per lampadari magnifici e per torchietti disposti intorno alle pareti. In una di queste si vedevano appesi li stemmi del Comune e dei Vergiolesi. Nell’altra, fra grandi cornici di legno intagliato, spiccavano i ritratti degli avi della famiglia. Qui pure grandi sedie a bracciali, ma di corame in colore con lucide borchie. Di già in quella sala una gioia più libera pareva diffusa sopra ogni volto. Solo un cavaliere v’avresti veduto con occhi foschi, e accigliato così, da fare uno strano contrapposto fra tanto giubilo. Era costui un parente dei Vergiolesi, messer Nello de’ Fortebracci. Frattanto il volto di Selvaggia, vinta la nube che lo aveva per poco offuscato, s’animava di tal contento che co’ detti e co’ modi godeva quasi di farne partecipi quanti le eran vicini. Chi ne conosceva il carattere non poteva dire che ciò nascesse da ambizione. Era un impulso abituale della sua indole; impulso, quasi che inconsapevole, d’ingentilirsi e d’ingentilire. Qualità che pur si riscontrano in certe anime privilegiate, bramose di destare in altri quel puro senso d’affetto e di gioia che provano in sè: al modo del poeta che sente e s’accende, e vorrebbe pure trasfondere in altri quella viva sua fiamma. Anche allora che si dava alle danze l’avresti detta pur sempre la regina della festa. A render più lusinghiere le danzatrici contribuivano non poco in quei tempi il genere dei balli; governati da melodie sì lente e soavi, che più che invitare con celeri passi a circuirne la sala, obbligavano invece a movenze di grazia; sia che l’una coppia s’intrecciasse con l’altra, o distaccandosi alcun danzatore si facesse dinanzi alle dame in atteggiamento di reverenza e di leggiadria. Or avvenne che dopo un breve riposo, e recati in giro eletti rinfreschi, un coro di fanciulle rallegrò inaspettatamente la festa. Era il canto d’una Ballata, pensiero tutto unico di Selvaggia! Dimorando al castello, ella stessa aveva voluto addestrare a questo canto a ballo varie giovinette dalla voce più intonata e più chiara. Se non che talora mentre le accompagnava sul suo liuto, fra l’una e l’altra strofa, usciva in preludi così mesti e soavi, che quelle fanciulle ne rimanevano estatiche. La Ballata era questa: «Giovine bella, luce del mio core, Perchè mi celi l’amoroso viso? Tu sai che il dolce riso E gli occhi tuoi mi fan sentire amore. E sento dentro al cor tanta dolcezza Quando ti son davanti, Ch’io veggio quel che amor di te ragiona. Mai poi che privo son di tua bellezza E dei tuoi bei sembianti, Provo dolor che mai non m’abbandona. Però chiedendo vo la tua persona, Desioso di quella cara luce Che sempre mi conduce Fedel soggetto dello tuo splendore.» E ripetevano di tratto in tratto come per intercalare: Giovine bella, luce del mio cuore. E a un tempo su questo canto s’intrecciavano lievi danze. Tostochè messer Cino n’ebbe udite le prime parole, si volse a Lemmo con gran meraviglia; ma non potè a meno di non mostrarsene soddisfatto e ad un tempo commosso. È da sapere che questa Ballata fu composta da Cino² : ch’ei la diede in segretezza all’amico perchè vi facesse porre la musica, e la donasse a Selvaggia, ma come sua.—Così almeno,—diceva egli—avrò in sorte, benchè ella lo ignori, che alcuni miei versi li possa cantare liberamente, o udir chi li canti presso di lei.—Non però che in seguito, mutato consiglio, egli stesso non glie li inviasse, e a lei non fossero grati; disvelandone anche l’amore con certe allusioni al suo nome, come già Dante a quel di Beatrice, il Montemagno a quel di Lauretta, il Petrarca a quel di Laura. Ma frattanto Selvaggia di questi versi ignorava affatto il vero autore; e credendoli anzi di Lemmo, pensò che a lui, che per sicuro sarebbe stato alla festa, all’udirli cantare avrebbe fatto una grata sorpresa. ² Estratta dal Codice 1118 Riccardiano, che contiene una raccolta delle poesie di Cino. Or mentre i plausi risonavano per la sala al buon esito della musica, e alla gentile che l’avea procurata; rivolta Selvaggia alle dame che le erano attorno: —Io non voglio—con molta grazia diss’ella—che passi questa serata senza che vi proponga il giuoco della ghirlanda. —Bene sta—replicarono esse. E i cavalieri:—Ci piace molto. Così potremo far prova della eloquenza simbolica, e della cortesia di colei che sortirà ad intessercela. —Parmi—soggiunse ella,—che questo giuoco non meglio s’addica che a sì bel fiore di dame, e al principio del bel mese dei fiori. A noi adunque a intrecciar ghirlande pe’ nostri amici. Lemmo allora alle dame: —Affè, che la proposta è gentile! Non vi pare che madonna Selvaggia nella gaia scienza si sia fatta maestra? —Veramente!—ripeterono a una voce. E fra gli scherzi gioiali si raccolsero coi cavalieri in gran cerchio a formare, com’era dell’uso, questa ideale ghirlanda. Ad intesser la quale doveva ciascuna ricordare un fiore o una foglia che alludesse al cavaliere cui destinavasi; e si dava lode a colei che il faceva con più d’ingegno. Dovevasi poi dar ragione perchè si scegliesse piuttosto un colore che un altro; meglio una rosa che un giacinto; mentre i fiori come le pietre preziose avevano allora un linguaggio simbolico, che resultava dalla qualità, dal colore, o dal modo di collocarli. Il verde, per esempio, indicava speranza; il rosso, amore; il bianco, innocenza. Questo linguaggio si dava ai fiori anche per cose più gravi; e un giglio situato capovolto sull’asta, vediamo in Dante che annunziava la sconfitta d’una fazione. A dar segno di timore e speranza si offeriva una rosa con le spine e le foglie. Se nulla era da temere nè da sperare, si tenea capovolta: togliendo le spine era simbolo di tutta speranza. Il fior d’arancio, se posto sul capo, indicava affanno dell’animo; sul cuore, amoroso tormento; sul petto, noia. —Io offro—diceva Lauretta de’ Sinibuldi cui toccò in sorte di dar principio—io offro al nobile messer Fredi la mia ghirlanda. Essa è tessuta di verdi foglie: perchè, che sarebbe la vita senza il conforto della speranza? Ma il fiore che solo bramo vi si distingua, vuo’ che sia il giglio. A leal cavaliere qual egli è, il candore dell’anima deve in ispecial modo aggradire. Ed egli:—Gran mercè Lauretta; voi veramente mi leggeste nel cuore! È da sapere che messer Fredi aveva incontrato spesse volte Lauretta da sua sorella, e se n’era invaghito. Perduta la madre da due anni, era la prima volta che la donzella interveniva a lieto convegno. Non poteva dirsi un fior di beltà, ma certo di molta grazia e di senno. Seguitando il giuoco, talora le dame si davano a pungere i cavalieri con motti curiosi e di spirito. Allorchè a sua volta toccò la scelta a Selvaggia. Essa allora volgendosi al Sinibuldi, e fattosi un poco vermiglia, così prese a dire: —Io intesso a messer Cino una corona di lauro, e offro a lui una rosa perchè ne rallegri il suo poetico serto.—E in questo, toltasi dal petto una bella rosa maggese ravvolta fra verdi foglie, con ingenuo sorriso gliela porgeva. Pensiamo se a Cino fosse grato quel dono! Gli giungeva sì inatteso, che per esprimere a cotal donatrice tutto quel che sentiva, quasi mancarongli le parole. Ma Selvaggia fu molto paga di quella sua commozione. —Avess’ella le spine?—con certa curiosità si domandarono alcune. —Chi sa! sicuro le verdi foglie, simbolo di speranza, non vi mancavano. Ad ogni modo quel dono fra le giovani donne non potè dirsi non avesse destata qualche piccola invidia. Perchè è da notare che in messer Cino (con particolar cortesia da esse accolto come suolsi d’un giovine nuovo-reduce dopo un’assenza non breve), recò sorpresa di scorgere tanta affabilità disinvolta, un eloquio sì facondo e soave, e certa lieve malinconia che gli appariva nel volto, e rendevalo sì espressivo, che n’eran rimaste incantate quasi che tutte. Frattanto che le danze si riprendevano, Cino s’avvicinò a Selvaggia, che da un lato della sala se ne stava a parlare con Lauretta di lui cugina. —E permettete—le disse—ch’io vi ringrazi di nuovo del vostro bel dono? —Oh! di che mai, messer Cino!… —Da voi questa rosa!—riprese egli mostrandogliela con compiacenza.—Oh veramente l’immagine vostra! Sì, vi confesso che al mio ritorno non potevo attendermi una sorte più lieta! Sarebbe questo un augurio che per me di Selvaggia diveniste pietosa? —No, no, non dir questo!—Lauretta soggiunse allora al cugino.—Tu non ricordi… —Ah! credimi, Lauretta—la interruppe Selvaggia—gli uomini non ci conoscono, ed obliano facilmente! E messer Cino, per quanto sì colto e delle donne cavaliere cortese, ce ne porge la prova! —Selvaggia!—riprese egli—e con quali argomenti, voi discreta quanto gentile, potete dir questo? Volesser le stelle che i vostri occhi, i quali ad esse somigliano, potesser penetrarmi nel cuore! Leggervi l’affanno crudele provato fin qui, in un’assenza sì lunga… e questa confortata soltanto dal pensiero di rivedervi! E ora!… ora che vi son presso, fedele vassallo di voi, donna unica del cor mio; ora che del vostro sguardo ho potuto bearmi… e pel vostro dono prezioso potermi dire il più felice degli uomini… —Ma tu non lo ascolti, Selvaggia!—interruppe Lauretta, volta all’amica, che alle parole di lui si era fatta già pallida, e quasi in abbandono ed in estasi, al braccio della sua confidente. Quando di subito ravvivata, si volse ad esso, e con dolce modo gli disse:—Oh! messer Cino! non vi scordarono le mie compagne, e vi potrei scordar io? Queste parole furon profferite, nel separarsi, con tal volger di sguardo, che al giovine amante brillaron gli occhi di gioia. Era ivi appunto in disparte e non visto Nello de’ Fortebracci: all’udire gli ultimi detti e quell’amoroso incontrarsi dei loro sguardi, fece un tal gesto come d’un uom furibondo, e fuggì. Le danze e l’allegro favellio continuavano ancora, quando Selvaggia, cui incombeva di far gli onori della festa, tornò con l’amica a prendervi parte. Gli uomini più gravi eran rimasti a convegno nella prima sala e in altre vicine. Il capitano Vergiolesi e il potestà avevano già convenuto che non si dovesse far trapelare tra i cittadini la minaccia dell’assedio. In un giorno di tanto concorso una nuova di questa fatta avrebbe messo a subbuglio l’intera città. Perciò anche la festa doveva aver luogo, serbandone con chicchessia, coi figli stessi di messer Lippo, il più assoluto silenzio. Nondimeno, benchè si sforzassero di simularsi tranquilli, un segreto sospiro mandavano spesso dal petto, e molto affannoso! —Che sarà mai?—ridotti in disparte dimandava il Vergiolesi al potestà degli Uberti. —Che sarà? Gravissimi fatti questa volta ho timore!—E in pochi detti colui gli accennava le cause e ne deduceva le possibili conseguenze. —Importa dunque di prepararvisi, e senza indugio—ei concludeva.—Ma, e il Consiglio? E l’altro:—In breve sarà adunato.—Intanto dimane—lo avvertì il degli Uberti—fate che messer Cino v’informi minutamente di ciò che accadeva a Bologna. Io attendo un messo da Pisa, un altro da Firenze. Voi vedete se il tempo stringe! Dalle nuove però i consigli e il provvedere. —Sta bene. Andiamo adesso, chè alcuno in passando non ci oda, o ne prenda sospetto. Nell’avanzarsi, il Vergiolesi incontrava il venerando vecchio Astancollo Panciatichi, uno dei magnati ghibellini che teneva banca reale, cui dimandò: —Vorreste voi compiacermi di qualche nuova del vostro Vinciguerra? —Per lettere, che mi spediva l’altro ieri col mezzo degli Spini, banchieri a Firenze, so che si serba in salute, e di presente egli è in Avignone. Onori per vero a lui non mancarono dal re Filippo. Ma che per questo? Che mi fanno gli onori, che conto i guadagni che la nostra banca là in Francia ci ha procurato, se io nol riveggo? La vecchiezza m’incalza, ed ei non dà segno di farmi sperare il ritorno. Ah! voi non sapete, messer Lippo, che sia l’avere un figlio esule e da tant’anni! Un figlio amatissimo che doveva essere il sostegno di mia vecchiezza! Perduta la consorte, non mi rimane che la mia povera Oretta; buona figlia che ell’è, ma per noi dati ai negozi, non bastevole a soddisfarci, nè io a curarla come vorrei. —Ma perchè—soggiunse l’altro—ora che gli esuli Bianchi possono rimpatriare, non viene in soccorso di voi e del Comune, che ne ha tanto bisogno? —E’ teme sempre gli inganni dei Guelfi! Troppo omai li ha conosciuti anche in Francia! Razza di vipere e’ li chiama, che in Corte del papa s’annidano, e per coperte vie, e sotto il manto di Santa Chiesa si fanno strada dovunque, corrompono ed avvelenano l’Italia. —Pur troppo, ser Astancollo! Ma noi per questo dovremo perderci d’animo? Sfidiamoli a viso aperto, e la giustizia di nostra causa alla perfine vedrete che dovrà trionfare. Oh! io, ve lo giuro! quanto a me non cederò un sol passo, e farò di tutto per impedire che qui i Guelfi ed i Neri prevalgano. Nè paia strano al lettore che un medesimo tetto accogliesse a quei tempi un Panciatichi e un Cancellieri. Della famiglia di questi ultimi v’erano soli alcuni di parte Bianca. Banditi e rifugiatisi a Pisa; trionfando di nuovo in Pistoia la propria fazione, sostenutavi dal degli Uberti, avevano potuto rimpatriare. Ma poi la fazione per quei cittadini era tutto: e all’occorrenza dimenticavano per essa, o, a meglio dire, soffocavano gli affetti domestici. Fra questi e altri particolari era già avanzata la notte, e s’udivano i suoni più allegri, coi quali si riprendevano le danze. Erano esse la Furlana e la Veneziana, che solevan farsi in gran cerchio e a passi più concitati sul finire della festa. Ancora alcun poco e la eletta schiera, paga omai di sì gentili accoglienze, si congedava dalla famiglia. Messer Cino, nell’accomiatarsi, era pregato dal Vergiolesi di volersi recare a lui nel giorno veniente. Selvaggia, nell’udir ciò, diè segno di tal compiacenza, che non potè celare al guardo del giovane Sinibuldi; tantochè, lieto esso pure, coi suoi amici se ne partiva. CAPITOLO V. CONSIGLIO E DIFESA. «Molte volte addiviene che all’estremo gaudio conseguita il lutto.» ———— Salomone nell’Ecclesiaste. Fino dal far della notte le tenebre in quei tempi nella città eran fitte per ogni strada. Solo qualche lampada posta innanzi a sacri tabernacoli sui canti d’alcune case, a cura però di privati in opposizione agli errori de’ Paterini, tramandava un piccol barlume, e serviva così a scopo religioso e civile. Nell’uscir dalla festa, Cino si era accompagnato con l’amico Lemmo e col Cancellieri. Nè Lemmo si era premunito di lanterna, nè gli altri due avevano avvisato di farla portare ai propri servi, come soleva la nobil gente: e benchè i domestici dei Vergiolesi le avesser loro profferte, scherzosi e giulivi ne ringraziavan, dicendo che era un bell’andare al lume delle stelle; e già si erano incamminati per le proprie case. Tutti dovevan fare la stessa via, e così l’uno all’altro poteva esser di scorta. Messer Cino, già venduta l’antica casa de’ Sinibuldi in S. Maria cavaliera, insieme a quella de’ Taviani e de’ Cremonesi per erigervi l’attual palazzo del Comune, abitava ora in altra sua in parocchia di S. Ilario. Di qui doveva passare il Cancellieri, che, essendo de’ Bianchi, aveva casa presso l’abbazia di San Bartolommeo in pantano, detta così perchè nella parte più bassa della città. Poco distante era la casa di Lemmo. Costoro, fin da quando erano usciti all’aperto, si erano accorti che uno sconosciuto, ravvolta la persona in ampio mantello, e chiuso il cappuccio, li seguitava. Quando ecco che giunto il Sinibuldi alla porta di casa e presso ad entrarvi, quell’incognito che dal lato opposto della via passava loro dinanzi, fu udito profferir chiaramente, benchè a voce repressa:—Maledizione!— Tutti a un tratto posero la mano sull’elsa, non sapendo in quell’ora, per chi di loro e a qual fine un sì strano imprecare. E intanto che colui a gran passi si dileguava: —Ma sapete ch’io dubito—disse il Sinibuldi—che sia stato dispetto di quel cotale perchè non m’abbia potuto aver solo per via! Da quella imprecazione, Lemmo, non ti parrebbe? —Oh! appunto per te! Ad ogni modo meglio così, t’avremo salvato! —Bada però—soggiunse Cino—che la spada al fianco non la tengo per nulla, e all’occasione l’avrei saputa impugnare. Ma, dico io, quella parola perchè appunto qui? Non ti par proprio per me?
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