Rights for this book: Public domain in the USA. This edition is published by Project Gutenberg. Originally issued by Project Gutenberg on 2020-03-30. To support the work of Project Gutenberg, visit their Donation Page. This free ebook has been produced by GITenberg, a program of the Free Ebook Foundation. If you have corrections or improvements to make to this ebook, or you want to use the source files for this ebook, visit the book's github repository. You can support the work of the Free Ebook Foundation at their Contributors Page. The Project Gutenberg EBook of Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. II, by Pasquale Villari This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. II Author: Pasquale Villari Release Date: March 30, 2020 [EBook #61705] Language: Italian *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK NICCOLÒ MACHIAVELLI *** Produced by Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) NICCOLÒ MACHIAVELLI E I SUOI TEMPI VOLUME II PASQUALE VILLARI NICCOLÒ MACHIAVELLI E I SUOI TEMPI ILLUSTRATI CON NUOVI DOCUMENTI 3ª Edizione riveduta e corretta dall'Autore Volume II ULRICO HOEPLI EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA MILANO — 1913 PROPRIETÀ LETTERARIA 65-912. — Firenze, Tipografia «L'Arte della Stampa», Succ. Landi Via Santa Caterina, 14 INDICE AVVERTENZA Anche a questo secondo volume debbo premettere solamente, che ho tenuto conto dei principali lavori recentemente pubblicati sul Machiavelli. Questo ha fatto di necessità procedere lentamente la stampa. Firenze, 11 ottobre 1912. P. Villari. LIBRO PRIMO CAPITOLO IX. Il Secolo di Giulio II. — Le Belle Arti. — Leonardo. — Michelangelo. — Raffaello. — La nuova letteratura. — Lodovico Ariosto. — Gli scritti giovanili di Francesco Guicciardini. Il decennio in cui Giulio II sedette sulla sedia di San Pietro (1503-1513), fu un periodo memorabile nella storia della politica, memorabilissimo in quella della cultura italiana. Con una volontà indomabile, con un impeto più che giovanile, guidato sempre dal pensiero di riconquistare alla Chiesa le provincie che, secondo lui, le erano state usurpate; d'ingrandirne, di renderne forte e temuto lo Stato, questo Papa, che aveva già sessanta anni, agitò il mondo. Egli tenne in mano le fila della politica in tutta l'Europa, ora a vantaggio ora a danno d'Italia, che divenne il campo aperto alle grandi battaglie, le quali finirono coll'esserle cagione d'irreparabili sventure. Le proporzioni gigantesche, che questi fatti presero quasi istantaneamente, dovevano lasciare una profonda impressione nell'animo degli uomini, per poco che guardassero e meditassero su ciò che intorno ad essi seguiva. Certo è che si vide allora un grande incremento nella cultura, e nuovo splendore ne ebbero le opere letterarie, massime di politica e di storia, nelle quali gl'Italiani, con insuperabile originalità, riuscirono maestri all'Europa. In verità, quando, in mezzo a quel sanguinoso cataclisma, che, incominciato colle battaglie d'Agnadello, di Ravenna, di Pavia, finì col sacco di Roma e l'assedio di Firenze, noi vediamo che si scrivono le opere del Machiavelli e del Guicciardini, possiamo riconoscere una relazione naturale fra di esse ed i grandi, sebbene dolorosi, tragici fatti, in mezzo ai quali furono composte. Ma quando vediamo che, nel medesimo tempo, si scrivono poemi come quello dell'Ariosto, commedie, novelle, satire, sonetti, poesie burlesche d'ogni sorta, allora chi può negare che tutto ciò abbia l'apparenza d'un singolare contrasto? Pure la verità è, che ora appunto il Rinascimento italiano si manifesta in tutta l'infinita varietà del suo splendore, il quale non solamente sfolgora nelle mille nuove forme della prosa e della poesia nazionale, ma ritrova la sua maggiore originalità nelle arti plastiche, che danno la propria impronta alla cultura di quel secolo, che travagliato da lotte feroci, fu pure essenzialmente artistico. Una nuova primavera intellettuale sembra ringiovanire la terra insanguinata, sulla quale spunta improvvisa una moltitudine di fiori non mai più visti, dalle cui foglie emana una misteriosa fragranza, che c'inebbria anche oggi: in essi è un'armonia di forme e di colori, che lascia estatico e rapito chiunque la contempla. Mentre le furie della rapina e della guerra si scatenano da un lato, si direbbe che dall'altro una musica divina annunzî che gli Dei discendono di nuovo a passeggiare fra i mortali. I nomi di Leonardo, di Raffaello, di Michelangelo bastano certo alla gloria d'un popolo, alla grandezza d'un secolo. Con le loro mirabili opere l'Italia arriva, specialmente nella pittura, ad un'altezza cui nessun'altra nazione potè mai innalzarsi. È un'arte che, come quella della scultura greca, non nasce due volte nel mondo, perchè, divenuta immortale, non si ripete nè si riproduce. La culla e la scuola principale di questi artisti fu di certo Firenze; ma le loro opere più celebri vennero da essi compiute in Roma, e quindi il secolo, pigliando nome da un Papa, fu chiamato di Leone X. Sebbene però questo Papa fosse della famiglia dei Medici, cui tanto debbono le arti belle, e fosse anch'egli un gran mecenate, è certo che usurpò una gloria assai maggiore di quella che veramente gli spetti. Raffaello e Michelangelo ricevettero da Giulio II le grandi commissioni, e sotto il suo papato compierono quelle pitture, quelle sculture, che fecero di Roma un santuario dell'arte, al quale da ogni angolo della terra muovono, in continuo pellegrinaggio, i popoli civili. E Giulio II non solamente ordinò e pagò quelle opere immortali, ma le volle, le promosse con un ardore di cui egli solo era capace; e quindi, non senza ragione, alcuni moderni da lui e non da Leone X vollero nominare quel secolo.[1] Delle arti belle noi non abbiamo finora tenuto parola, perchè esse non ebbero sull'animo e sull'ingegno del Machiavelli un'azione visibile. In Roma egli non si fermò una sola volta a notare la grandezza dei monumenti antichi o contemporanei, che erano sotto i suoi occhi. Lo stesso silenzio serbò su quelli in mezzo ai quali visse in Firenze, dove non lo troviamo mai ricordato a proposito dei grandi avvenimenti artistici, che seguirono appunto nel primo decennio del secolo. Eppure essi erano dovuti in gran parte all'iniziativa del gonfaloniere Soderini, ed il suo governo, di cui il Machiavelli fu di certo non ultima parte, dette un nuovo impulso alle arti, proteggendole con ardore, dopo che, sotto Piero de' Medici ed al tempo del Savonarola, erano state invece neglette. E non solamente alle nuove opere artistiche che si vanno ora compiendo a Firenze, in un modo o l'altro, pigliano parte, insieme col Gonfaloniere, tutto il governo, tutta la cittadinanza; ma queste opere ebbero un valore così grande ed universale nella cultura italiana, contribuirono tanto a formare il carattere intellettuale del secolo, esercitarono una così grande azione sulla letteratura italiana, che, indirettamente almeno, dovettero pure esercitarne una non piccola anche sulla mente del Machiavelli. Lo spirito che le animava era nell'aria stessa che si respirava. E se nelle belle arti tutto ciò piglia una forma più concreta e plastica, quindi più visibile e intelligibile, lo studio di esse appunto perciò ci apre la via a meglio comprendere e giudicare il valore e l'indole della letteratura del secolo XVI, nella quale il Machiavelli occupa un così gran posto. Per queste ragioni dobbiamo ora fermarci un momento a parlare delle arti belle. Nel Medio Evo esse si trovarono come riunite in una sola arte. La pittura e la scultura infatti sembravano essere un complemento dell'architettura, di cui, perdendo la propria personalità, divenivano quasi un necessario complemento nelle grandi cattedrali. In esse tutti gli artisti, che lavoravano insieme a costruirle ed ornarle, sembravano voler nascondere il proprio nome e sparire agli occhi dei posteri. Con Nicola Pisano, Giotto e Arnolfo la loro individualità apparisce finalmente chiara e ben definita; e le arti, affermando la propria indipendenza, cominciano il nuovo e glorioso cammino al tempo stesso che la nuova letteratura apparisce già formata nella Divina Commedia : la figura colossale di Dante giganteggia su tutto. I mezzi principali con cui più tardi, nel secolo XV, venne compiuta questa grande rivoluzione, furono lo studio del vero e dell'antichità, la quale rinacque allora fra noi potente così nelle arti come nelle lettere. Questa rivoluzione era stata già di lunga mano apparecchiata e resa inevitabile. Chi guarda infatti il duomo d'Arnolfo ed il campanile di Giotto, certo non ritrova ancora lo stile greco-romano del Rinascimento; ma non vede neppure quello stile gotico, che fiorì invece in Francia e sul Reno, ed apparisce fra di noi profondamente alterato. Si direbbe che in Italia si cercasse fin dal principio una più solida e simmetrica ossatura classica, la quale costringeva, trasformava sostanzialmente l'architettura medioevale. Infatti i molteplici ornati, rilievi e bassorilievi di scultura, che ne costituiscono uno dei caratteri fondamentali, si mutarono in quelle incrostazioni di marmo, che, secondo l'espressione d'un moderno,[2] sono il nemico capitale del gotico. La linea orizzontale predomina, le foreste di sottili colonne si riuniscono in fasci, le fantastiche curve si semplificano, lo slancio irresistibile che sembra spingere il tempio e l'animo dei credenti verso il cielo, si arresta: anche qui lo sguardo dell'uomo è ben presto richiamato dal cielo alla terra. Da questa fusione di forme classiche e gotiche, cui s'aggiungono ancora forme orientali, il tutto mirabilmente riunito in un solo stile, in un solo pensiero artistico, nasce un'arte affatto nuova, alla quale non si può dare che il nome d'italiana. In essa ancora non è visibile, ma già si trova in germe quello che sarà il carattere proprio del Rinascimento. Chi infatti, ponendosi a contemplare il duomo di Firenze, lo vede a un tratto incoronato dalla celebre cupola del Brunelleschi, resta maravigliato, non tanto della grande diversità dei due stili, quanto del vedere come essi armonizzino mirabilmente fra di loro. Si direbbe che le forme pur tanto più romane e classiche della cupola, si svolgano naturalmente dal seno stesso del mirabile duomo medioevale, e che in esso si trovi sin dal principio nascosta un'altra arte, quella del Rinascimento, che prima o poi doveva di necessità venire alla luce. È questa infatti che trionfa nel secolo XV, animata da uno spirito nuovo, che le dà una fisonomia, una forma che sembra contradire a quella delle precedenti scuole italiane; ma la contradizione è solo apparente. In realtà così nell'architettura come nella pittura e scultura un'arte si svolge, nasce dall'altra, seguendo sempre la stessa guida. Il principio che le costituisce ambedue è sempre lo studio del vero e dell'antico. È il fatto identico che notammo nella letteratura, quando anche nella Divina Commedia trovammo nascosto il primo germe della erudizione umanista. Ma in questa trasformazione le arti belle non ebbero, come la letteratura, un periodo di sosta, durante il quale il predominio eccessivo del latino parve che sospendesse lo svolgimento naturale dell'italiano. Esse mutarono indirizzo, seguendo sempre il loro cammino ascendente. La pittura specialmente, favorita più tardi anche dalla scoperta dei colori ad olio, venuti a noi dai Fiamminghi, acquistò ogni giorno forza, originalità, indipendenza sempre maggiori. Essa anzi prese fra le arti sorelle il primo posto, non solo per la moltiplicità e varietà infinita delle sue produzioni, non solo perchè il genio italiano riuscì in essa a manifestarsi più ampiamente e compiutamente; ma ancora perchè comunicò, quasi impose il suo proprio carattere alle altre arti, alla letteratura stessa. L'architettura rinacque con le forme classiche, per opera del genio del Brunelleschi, che studiò a Roma i monumenti antichi, e per opera di Leon Battista Alberti, che fu anche un erudito. Le chiese però ed i palazzi che questi innalzarono, come tutti gli edifizî del Rinascimento italiano, anche quando più s'avvicinavano all'antico, non ne furono mai una materiale riproduzione. Linee e forme, in apparenza identiche alle greche e romane, assumevano un'espressione ed un significato affatto diversi. L'ornato, con carattere sempre vario, nuovo, originale, prese un posto eminente, preponderante, perchè il carattere dell'arte doveva allora essere, sempre ed in tutto, il pittoresco. La scultura fiorentina con Donatello, coi della Robbia, col Ghiberti avanzò del pari, studiando l'antico, ritraendo il vero. Un'espressione di nuova giovinezza, un'insolita energia, una freschezza vergine di movimenti e di forme si moltiplicavano per tutto. Se il Brunelleschi sembra avere nei suoi ardimenti e nella severa semplicità delle linee, che sdegnano ogni gotico frastagliamento, un'anima di ferro, Donatello riesce a dare alle sue statue una forza, un'originalità e semplicità d'espressione tali, che i due artisti si possono dire fratelli in ispirito. E in Donatello si vede già quello che apparisce più chiaro ancora nella gentile vaghezza di Luca della Robbia, nei suoi varî e variopinti ornati, il predominio costante del pittoresco. I bassorilievi delle porte del Ghiberti paiono dei quadri dipinti a chiaroscuro, quelli di Donatello s'abbassano qualche volta fino ad aver tutta l'apparenza di lavori disegnati a contorno. Alcuni ritratti scolpiti da Mino da Fiesole si direbbero dipinti dai Fiamminghi, i quali ebbero pur la loro parte nello svolgimento dell'arte italiana, molte essendo allora le relazioni commerciali fra i due popoli. Non di rado è assai visibile l'azione esercitata sugli artisti fiorentini dalle opere immortali dei fratelli van Eyck. La mescolanza di tanti e così diversi elementi, sebbene in modo mirabile riuniti e fusi dal genio nazionale, che predomina sempre su tutto, toglie all'arte italiana quella severa unità organica, che troviamo nella greca ed anche nella gotica; ma ne risulta invece una varietà infinita. E questo seguiva anche nelle lettere, e per le stesse ragioni, giacchè nel nostro spirito venivano come chiamati a raccolta tutti i più diversi sistemi di letteratura, di filosofia, di arte, di cultura, che in esso dovevano trovare unità nuova e più generale. Si direbbe che l'Italia avesse allora una forza assimilatrice, capace di armonizzare, sotto nuova forma, tutto ciò che l'Oriente e l'Occidente, il Paganesimo ed il Cristianesimo, erano stati capaci di produrre. Ma prima che, con così diversi elementi, si riuscisse a formare un vero organismo, animato da uno spirito nuovo, vi doveva essere, e vi fu, un periodo di preparazione, in cui essi rimanevano ancora assai visibili. A poco a poco s'avvicinarono, s'unirono, ed il primo legame che incominciò a fonderli insieme fu plastico, esteriore, essenzialmente artistico, descrittivo, pittorico. Sarà sempre un onore immortale per l'arte e la letteratura italiana in quel secolo, l'esser divenute l'espressione, la personificazione vivente e visibile d'un vero microcosmo intellettuale. L'armonia plastica, artistica era la manifestazione dell'armonia interiore già seguìta nello spirito, la quale, in mezzo a tante calamità, veniva ad illuminare il mondo di nuova luce, a confortare gli uomini, ad annunziare la fine ormai compiuta del Medio Evo, il principio di un'èra novella. Quest'arte tuttavia non potrà mai perdere del tutto la memoria della sua prima origine, dovrà anzi risentirne le inevitabili conseguenze. Infatti non appena la sua forza creatrice, col decadere della nazione, s'indebolisce, comincia subito a riapparire la diversità degli elementi che la costituiscono, ed il barocco, sempre più esagerato, è allora l'abisso in cui essa dovrà, prima o poi, inevitabilmente precipitare. Ad un tale destino sembrano sfuggire del pari l'arte greca e la gotica, le quali, più semplici, costituite da meno varî e molteplici elementi, morirono di morte naturale, per esaurimento di forze, senza aver mai avuto un periodo di tumultuosa anarchia, come l'avemmo noi nel secolo del barocco. L'arte fiorentina, specialmente la pittura del secolo XV, ci mostra chiaro l'unione, l'armonia dei diversi elementi, e la grande, ricca, infinita varietà che ne risulta. Dalla profonda espressione religiosa che ammiriamo nel Trecento, dalla classica bellezza greca, dallo studio accurato del vero, che s'incontrano e si mescolano, nasce una nuova eleganza di forme ideali, che si direbbero più che umane, se il loro fondamento, la loro visibile sorgente non fosse sempre la natura. Questo non mai più veduto tipo di bellezza è il vero fiore della nuova arte, è la prova maggiore della sua potenza creatrice. Il primo che si presenti a noi, fra gli artisti del nuovo stile, è Masaccio (1401-28), giovane le cui opere resero subito immortale, la cui vita ci rimane però quasi del tutto ignota. Egli scomparisce ben presto dal mondo, dopo avere aperto una via per la quale tutti debbono seguirlo. Accanto a teste che sembrano fotografie dal vero, troviamo figure maestose, nobilmente avvolte in abiti, le cui larghe pieghe ricordano la toga o la clamide delle antiche statue. Il paese, l'architettura, la natura intera entrano nel quadro, e vengono a coordinarsi fra di loro, a costituire finalmente la nuova arte. Ma per un gran pezzo ancora i pittori fiorentini si danno, ciascuno, ad una parte diversa dell'arte loro, quasi a risolvere speciali problemi. Chi è inteso alla prospettiva; chi alla notomia; chi ritrae il vero con fedeltà fotografica; altri studia l'antico o cerca nuovi tipi e nuove espressioni; altri pone tutta la sua cura nel comporre architetture o paesaggi, che debbono servire come fondo de' suoi quadri. Ma tutti hanno una finezza, una gentilezza, un'eleganza che dimostrano chiaro quale è il genio artistico della nazione. Fu una straordinaria fioritura di opere d'arte, che, incominciata da Firenze, s'allargò e diffuse rapidamente in tutta Italia, rianimando di novella vita ogni cosa. E ben a ragione esclama il Gregorovius: se l'Italia del Rinascimento non avesse prodotto altro che la sua pittura, questa sola basterebbe a renderla immortale.[3] L'ardore, l'energia con cui è condotto questo grande lavoro nazionale, appariscono di giorno in giorno più evidenti. Gli artisti vanno acquistando una libertà, una potenza sempre maggiore di tutto esprimere; le loro idee, le loro creazioni si sollevano e li sollevano sempre più in alto. L'ora solenne in cui deve nascere quella che sarà veramente la grande arte del Cinquecento è vicina, e, come segue sempre nei momenti decisivi della storia, sono già pronti e impazienti i Titani, che saranno gli autori dell'opera immortale, che l'Italia deve compiere. Tutto ora annunzia il loro rapido avvicinarsi nel mondo dell'arte, nel quale si direbbe che essi sono presenti già prima che arrivino. E, per citare qualche esempio, noi certo non possiam dire che fra Bartolommeo della Porta (1475-1517) sia un uomo di vero genio. Egli non ha la forza d'ingegno e di fantasia, nè l'originalità necessaria a ciò; ma la larghezza del suo dipingere, l'armonia grandiosa e multiforme delle sue composizioni, la dolcezza delle espressioni sono già tali, che chi guarda i suoi quadri, sente, come nel proprio spirito, l'arrivo inevitabile, fatale di Raffaello. E la grande energia con cui, nel duomo d'Orvieto, Luca Signorelli disegnò; l'audacia con cui aggruppò, librandole in aria, alcune delle sue figure, fanno presentire la cappella Sistina di Michelangelo. Par che l'arte incominci essa l'opera del genio, prima che questo sia ancora comparso sulla scena. V'è realmente nella storia un lavoro quasi inconsapevole di molti, che apparecchiano, spianano la via al grande uomo, il quale finalmente arriva come un conquistatore, come un trionfatore, con tutta la piena consapevolezza della sua onnipotenza. Il tempio è finito, manca ancora il Dio che lo abiti e lo illumini; ma tutto ci dice che egli è vicino. Ben presto una luce improvvisa annunzierà la sua presenza. Questa ultima, grande rivoluzione si compiè tra la fine del secolo XV ed il principio del XVI, per opera principalmente di tre sommi ingegni, che noi troviamo ora a Firenze, sotto il Gonfalonierato del Soderini, occupatissimi a trasformar l'arte di fiorentina in italiana. Fra poco, per opera dei Papi, il teatro delle loro maggiori imprese sarà Roma, che diverrà la capitale artistica dell'Italia. Il primo che si presenti come un vero genio, capace di dare unità organica, impronta propria ed originale al lavoro già apparecchiato dallo spirito nazionale, è Leonardo da Vinci (1452-1519). Il suo maestro, Andrea del Verrocchio, aveva una varietà maravigliosa di attitudini diverse: pittore, scultore, orefice valentissimo; amava la musica, i cavalli, la scienza, e fin dalla gioventù s'era occupato molto di geometria e di prospettiva. Nelle teste da lui dipinte s'ammira una grazia singolare ed uno studio d'espressione notevolissimo; ma appunto in ciò il suo discepolo, anche più di lui splendidamente dotato, lo lasciava subito di gran lunga indietro. È nota la storia dell'angelo che egli dipinse nel quadro del maestro, il quale ne restò scoraggiato. Leonardo, in vero, si presenta sin dal principio come uno di quegli uomini privilegiati dalla natura, che li manda nel mondo a compiere grandi cose. Le facoltà del suo spirito erano, come le membra del suo corpo, armonicamente, mirabilmente formate. Bello e forte della persona, vinceva tutti negli esercizi ginnastici, e la sua intelligenza universale riusciva con uguale eccellenza in ogni umana disciplina. Idraulico, naturalista, inventore di macchine, matematico, vero iniziatore del metodo sperimentale, osservatore e scopritore dei fenomeni della natura,[4] scrittore di cose d'arte, artista valentissimo in tutto, ma nel dipingere sommo addirittura. La irrequietezza febbrile del suo genio gli faceva affrontar sempre nuovi e più difficili problemi d'arte o di scienza, dei quali proseguiva lo studio con ardore indefesso, finchè v'erano difficoltà da superare, per abbandonarli appena s'avvedeva di averle superate.[5] Così ci lasciò un gran numero di lavori incompiuti o anche appena cominciati; e spesso bisogna cercar le più belle idee, le maggiori scoperte di Leonardo ne' suoi numerosi taccuini d'appunti, parecchi dei quali pervennero fino a noi. Tuttavia i pochi quadri che condusse a termine, e i suoi molti disegni bastano non solo a rendere eterna la sua fama, ma anche ad accertare la grandissima azione che egli esercitò sui più celebrati artisti del suo secolo. Nello studio dell'anatomia cercò la sicura intelligenza di tutti i movimenti del corpo umano, come nel moto delle ali studiò il volo degli uccelli; lavorò con indicibile costanza a scoprire, ad immaginare, a ritrarre le più varie espressioni, comiche, tragiche, severe, serene, dell'umana fisonomia. Per opera sua il disegno divenne nella scuola fiorentina, meglio che in ogni altra, il mezzo potente e indipendente d'esprimere i più elevati pensieri, le più riposte passioni dell'animo. Ed in quella sua finezza del disegnare e dipingere, nella verità dei ritratti, nella vivezza e novità delle espressioni, arrivò a tale e tanta perizia, che il respiro sembra uscire dalla bocca de' suoi personaggi. La ricerca principale di tutta la sua vita artistica fu quella d'un tipo ideale di bellezza sovrumana, la manifestazione d'un divino sorriso, che apparisce assai spesso nelle teste da lui dipinte, e si ammirava specialmente nella Gioconda, la moglie di Francesco del Giocondo.[6] Pretendono che nel ritrarla facesse sonare allegra musica,[7] per meglio promuovere in lei quel sentimento d'ideale felicità che egli andava ricercando. Nel guardarla, noi non sapevamo persuaderci che i suoi occhi non si movevano, che le sue labbra non cominciavano a parlare, tanta era la verità e la vita che l'artista era riuscito ad infonderle. Chi esamina i taccuini di Leonardo, vi legge la storia della sua mente singolarissima. Accanto a teste ideali, che sorridono il loro ingenuo sorriso, che pur non è mai privo d'una certa ironica accortezza, si trovano le teste più comiche, più tragiche o più mostruose. Ma anche in questi fantastici e bizzarri capricci, le leggi della natura sono sempre rigorosamente rispettate. Dato il pensiero, data l'intenzione della prima linea, il resto segue come per logica conseguenza; il tipo più ideale o il più grottesco han sempre una mirabile unità e verità artistica. Ed accanto a siffatti lavori d'arte troviamo ora il disegno d'una macchina idraulica, ora le formole d'un problema matematico, ora uno studio anatomico, e massime filosofiche, spesso copiate dagli antichi, e nuove indagini sulle fortificazioni o sulle irrigazioni, e mirabili esperienze sulla caduta dei gravi, che fanno del grande artista il precursore di Galileo. Questo spirito di universale ricerca era in lui tale, che lo spingeva a concepire le più ardite, audaci imprese, come quella di sollevare, a forza di macchine il battistero di San Giovanni in Firenze, e l'altra di deviare il corso dell'Arno. Spesso finiva col non vedere più confini alla potenza dell'umana ragione e della scienza, di che è prova singolare la ben nota lettera a Lodovico il Moro. La sua irrequietezza gli fece ricercare anche nuove composizioni di colori, i quali egli, come gli antichi usavano sempre, apparecchiava colle proprie mani. La chimica però essendo allora nella sua infanzia, più d'una volta Leonardo fallì lo scopo, e i suoi quadri ne restarono col tempo annebbiati, anneriti, come si vede nella Cena, che ora pur troppo è sciupata addirittura. Essa conserva ancora, sebbene assai poco visibili, alcune tracce della sua inarrivabile bellezza; ma solo coll'aiuto delle stampe si può capire anche oggi, che è un'opera la quale basta alla gloria d'un uomo, ed incomincia un'epoca nuova nell'arte. L'effetto prodotto dalle parole di Cristo, — Uno di voi mi tradirà, — è tale nella espressione diversa di tutti i dodici Apostoli, che forma per sè solo un vero poema psicologico. La composizione, divisa in gruppi, due da ciascun lato del Cristo, che siede in mezzo, con una calma inalterabile, ha, è ben vero, qualche cosa di troppo ordinato, quasi di uniforme, che ricorda ancora i Quattrocentisti. Ma, come giustamente osserva un moderno, il divino di quest'opera sta appunto in ciò, che tutto quello che è studiato e calcolato, apparisce come spontaneo, necessario, inevitabile. Un genio potente rivela in essa i suoi inesauribili tesori; armonizza fra loro i contrasti d'espressione che ha creati, riuscendo a dare varietà anche all'apparente monotonia delle linee. E così un soggetto, che per sì lungo tempo era divenuto quasi convenzionale, riuscì a un tratto originale per lo spirito potente che lo animava. La nuova pittura è ormai con questo capolavoro iniziata; essa non ha bisogno d'altro che di qualche maggiore libertà e varietà nel movimento delle figure, nell'aggruppamento della composizione. A ciò Leonardo stesso si provò felicemente nell'Adorazione dei Magi, che trovasi a Firenze, e che egli lasciò incompiuta, forse quando s'avvide d'essere già riuscito a superare le difficoltà che s'era proposte. Le medesime difficoltà affrontava, come fra poco vedremo, in un'altra sua celebre opera, che andò quasi affatto perduta, e che fu da lui intrapresa quando da Milano tornò a Firenze. Qui pareva allora che tutto fosse pronto per uno dei più grandi trionfi dell'arte. Raffaello d'Urbino era partito dal suo paese, per venire là dove Michelangelo Buonarroti (1475-1564) aveva già compiuto qualcuna delle sue opere più belle, le quali davano anch'esse all'arte nuova la sua vera e propria fisonomia. Dopo avere studiato pittura col Ghirlandaio, e scultura nel giardino dei Medici, presso San Marco, Michelangelo in età di 23 anni appena, rivelava tutta la forza del suo genio nel gruppo della Pietà, che si appena, rivelava tutta la forza del suo genio nel gruppo della Pietà, che si ammira in San Pietro a Roma. Compiuto negli anni stessi in cui Leonardo dipingeva la Cena, anch'esso ha qualche cosa che ricorda il Quattrocento, e rende visibile la parentela della nuova scuola con quella dei della Robbia, Donatello e Verrocchio, dalla quale infatti deriva. Nè ciò fu senza qualche vantaggio. L'unità della composizione, l'originalità del concetto, l'abbandono del Cristo morto, risplendono insieme colla nobile pietà della Madre, la cui espressione ha, nella sua severa mestizia, una delicatezza e gentilezza di forme, che Michelangelo non ritrovò mai più nelle sue opere posteriori, come non ritrovò la stessa finitezza e castigatezza di disegno. Quest'opera lo mise d'un tratto fra i primi artisti del secolo. La lettura di Dante, le prediche del Savonarola, lo studio dell'antico, l'incremento naturale dell'arte, la fantasia irrefrenabile, potente lo spinsero sempre più nella nuova via, nella quale col suo David, che i Fiorentini chiamarono il Gigante, egli decisamente entrava. Tornato da Roma, dove aveva studiato assai l'arte antica, fu nel 1501 interrogato dagli Operai del duomo, se gli bastasse l'animo di cavare una statua da certo grosso blocco di marmo, che essi possedevano, e col quale parecchi altri artisti s'erano più volte provati, senza riuscire ad altro che a correre il rischio di sciuparlo sempre più. Lungo nove braccia, e molto stretto in proporzione della lunghezza, era come un pilastro, dentro cui non pareva che fosse possibile dar naturale movimento alla figura che se ne voleva cavare. Michelangelo, senza esitare, assunse volenteroso l'ardita impresa, che gli venne affidata dalla Repubblica nell'agosto di quell'anno, e nel gennaio del 1504 la statua, già compiuta, aveva bisogno solamente d'essere alquanto ritoccata sul posto in cui doveva andare. Dopo lungo disputare fra i primi artisti di Firenze, che erano allora i primi del secolo, intorno al luogo dove metterla, fu accettata l'idea dell'artista, che il David cioè dovesse star dinanzi al Palazzo della Signoria, là dove trovavasi allora il gruppo della Giuditta che ammazza Oloferne, opera di Donatello. I Fiorentini nel 1495, cacciati i Medici, l'avevano portata fuori della Corte del Palazzo, ponendola sulla ringhiera, con la iscrizione: Exemplum sal. pub. cives posuere MCCCCXCV , a simboleggiare la libertà che ammazza la tirannide.[8] Nel 1504 la trasferirono sotto la Loggia dei Lanzi, dove si trova anch'oggi, e nel suo posto venne messo il David colla fionda, quasi a difesa del Palazzo e della Repubblica. Giuliano e Antonio da San Gallo trovarono un modo singolarmente ingegnoso per portarvelo. Infatti, anche ai nostri giorni, quando per riparare la statua dalle ingiurie crescenti del tempo, bisognò metterla altrove al coperto, le molte commissioni di scienziati e di artisti, che più e più volte si radunarono, dovettero finalmente decidersi, non ostante i nuovi trovati della meccanica, a ricercare e seguire il vecchio metodo dei San Gallo, che ricomparve quasi come una singolare e felice scoperta, a cui nessuno dei moderni aveva saputo pensare.[9] Tenuto sospeso, in bilico, dentro un castello di legno, in modo da poter facilmente, nel muoverlo, ceder sempre, ondeggiando, alle scosse, il Gigante venne tirato sulle ruote, e senza difficoltà collocato sano e salvo al suo posto. Colà Michelangelo vi dette l'ultima mano, sotto gli occhi del Soderini, che spesso veniva ad ammirarlo, non senza presumere di dar consigli, che mettevano qualche volta a dura prova la pazienza dello scultore. Il David posa fieramente in piedi, collo sguardo fisso al nemico che ha già colpito. È immobile ed in apparenza tranquillo; ma il respiro affannoso, ed il movimento convulso delle narici manifestano l'interna agitazione. La destra, che discende lungo il fianco, tiene ancora una pietra; la sinistra, col braccio piegato, s'innalza sulla spalla, stringendo la fionda, ed è pronta ad un secondo colpo, quando il primo non abbia raggiunto lo scopo. Così tutta la figura potè facilmente esser cavata dal lungo ed informe blocco. Affatto nudo sta dinanzi al nostro sguardo questo colossale giovanetto, che nella sua energica semplicità dà prova d'una potenza sino allora ignota nell'arte. Anche il San Giorgio di Donatello, chiuso nella sua armatura, guarda con una semplice fierezza, che fa paura. Ma esso riesce meschino accanto al Gigante, che bisogna contemplar lungamente prima che nelle sue forme grandiose, nel disegno già un po' troppo risentito, nella calma severa e maestosa, si riveli a noi tutta quanta la potenza del genio che lo ha creato. Con questa statua ogni tradizione medioevale è spezzata, ogni forma propria del Quattrocento è sorpassata. L'antichità rinasce trasformata sostanzialmente nella nuova e spontanea creazione dell'artista moderno. Il dì 8 settembre 1504 il David era esposto al pubblico, che l'acclamava più che non fece mai per alcun'altra opera d'arte. Tutto cooperava a dargli favore agli occhi del popolo: le proporzioni colossali, la nuova via che essa apriva nella scultura, e l'esser come posta a guardia del Palazzo, a difesa della libertà. Guardando le opere posteriori di Michelangelo, si direbbe che da questo momento la figura colossale del David si ponga in moto. In esse egli studiò le nuove attitudini, i movimenti artistici di quel popolo di Titani, che, sotto mille forme diverse, sembrava volesse uscire impetuoso dalla sua agitata fantasia. Michelangelo cercò assai spesso il soprannaturale, ma non più nella sola espressione del volto, principalmente anzi nella sovrabbondanza della vita, della forza, dell'azione di tutte le membra. Fece per tutto ciò un lungo, continuo, paziente studio dell'anatomia. E trascurando ora le altre commissioni, pose mano ad un'opera, che doveva essere un secondo avvenimento nella sua vita e nella storia dell'arte. Il Soderini aveva dato a lui ed a Leonardo incarico di dipingere sulle due opposte pareti principali della sala del Consiglio Grande, due affreschi. Leonardo aveva già messo mano al suo cartone, su cui disegnò la battaglia d'Anghiari, seguita il 29 giugno 1440, nella quale i Fiorentini ruppero l'esercito del duca di Milano, comandato da Niccolò Piccinini, e la celebrarono poi ogni anno colle corse dei barberi. Michelangelo scelse invece un episodio della lunga guerra di Pisa. Di questi due lavori che, condotti a gara dai due grandi artisti, riuscirono di somma eccellenza, poco o nulla c'è rimasto. Di quello di Leonardo, forse anzi d'una parte sola di esso[10], abbiamo una copia poco fedele, fatta dal Rubens. Il cartone di Michelangelo, durante la rivoluzione dal 1512, fu messo in brani, che andarono anch'essi perduti; ci rimangono però antiche incisioni, abbastanza fedeli, della parte principale dell'opera grandiosa.[11] In ogni modo, a giudicare così l'uno come l'altro lavoro, bisogna aiutarsi con le descrizioni e le opinioni tramandateci dai contemporanei. Il Buonarroti immaginò l'allarme della battaglia, dato quando i Fiorentini si bagnano nel fiume Arno. Sono veramente maravigliose di movimento e bellezza le attitudini diverse con cui tutti escono in fretta, per vestirsi, mettersi l'elmo e la corazza, correre in aiuto dei compagni, che si vedono in lontananza avere già cominciato a combattere. Il Vasari dice, che gli artisti, ammirando quest'opera condotta dalle divine mani di Michelangelo, giudicarono «non essersi mai più veduto cosa che della divinità dell'arte, nessun altro ingegno possa arrivarla mai.» E bisogna crederlo, egli prosegue, perchè «tutti coloro che su quel cartone studiarono, e tal cosa disegnarono..., diventarono persone in tale arte eccellenti.»[12] Il Cellini dice che questa fu la prima bella opera, in cui Michelangelo dimostrò tutte le maravigliose sue virtù, «con tanti bei gesti, che mai nè degli antichi nè d'altri moderni si vidde opera che arrivassi a così alto segno.» E la giudicava superiore perfino alla volta della cappella Sistina. Dell'altro cartone poi egli dice, che in esso «il mirabil Lionardo da Vinci aveva preso per elezione di mostrare una battaglia di cavalli, con certa presura di bandiere, tanto divinamente fatti, quanto dir si possa.»[13] Anch'egli conclude che questi cartoni furono la scuola del mondo; e la tradizione conferma che su di essi studiarono moltissimi, fra cui Rodolfo Ghirlandaio, Andrea del Sarto, Francesco Granacci, Raffaello d'Urbino.[14] In essi noi non vediamo più la calma solenne ammirata nella Pietà, nel David e nella Cena; si manifestano, invece, in tutta la loro tumultuosa energia, l'azione, il movimento e la vita. Nel cartone di Leonardo era tale il furor della mischia, che non solo i cavalieri, ma i cavalli stessi combattevano, mordendosi fra di loro. In quello di Michelangelo non v'era, come si può anche dalle incisioni vedere, una figura che non fosse un capolavoro di unità e d'azione. Il disegno era finalmente riuscito a ritrarre non solo la forma e l'espressione umana; ma il tumulto delle passioni e della vita, nella loro infinita varietà. Le figure per sì lungo tempo, da tante generazioni d'artisti, così faticosamente studiate, sembrano staccarsi dalla tela per muoversi liberamente nello spazio. L'arte e l'artista hanno ritrovato tutta la loro indipendenza; Prometeo ha rapito la scintilla al sole, ed ha animato la sua statua. Superate che ebbe le maggiori difficoltà, Leonardo abbandonò il suo lavoro, e si dette, secondo il solito, alla soluzione di nuovi problemi artistici. Michelangelo, invece, che pure risentì l'azione del genio di lui, ed in alcuni de' proprî disegni fece studio diligente d'espressioni leonardesche,[15] non ne imitava la irrequieta mutabilità. Per tutta la vita continuò, invece, nella strada iniziata col cartone, nel quale aveva trovato finalmente la sua piena libertà artistica, non temendo d'incontrare più ostacoli nella forma di cui era divenuto padrone, nella materia che dominava, o nei sempre più difficili soggetti che imprendeva a trattare. Tutto sembrava uscire adesso spontaneamente dalla sua immaginazione, che obbediva solo alle leggi dell'arte, unica dominatrice del suo pensiero. Non mancavano certo anche a lui ogni giorno difficoltà nuove; ma egli era costantemente pronto a muovere assalto vittorioso contro di esse, e nella lotta trovava concepimenti e creazioni sempre più originali. Questa tumultuosa esuberanza di vita non gli fece mai raggiungere la calma olimpica della pittura di Leonardo, nè gli permise d'arrivar mai alla serena armonia della scultura greca. Anzi il germe della futura corruzione e decadenza dell'arte italiana trovasi già nelle sue opere più audaci, e divenne visibile negl'inesperti suoi imitatori. Intanto era assai progredita l'educazione di Raffaello Sanzio d'Urbino (1483- 1520), discepolo del Perugino, il principale rappresentante della scuola umbra. Promossa dai lavori di Giotto e de' suoi seguaci nel santuario di Assisi, non ostante le eminenti qualità proprie, essa è una derivazione dalla fiorentina, da cui ricevè continuo alimento. Ed anche Raffaello, sebbene restasse sino al finire del secolo XV in Perugia, venne subito in qualche comunicazione indiretta col mondo artistico di Firenze, in conseguenza delle gite e della dimora che vi fece più volte il suo maestro. Fin dai primi suoi lavori, Raffaello apparve poco disposto ai vincoli convenzionali del maestro, e con una delicatezza, una originalità sua propria, dimostrò di saper condurre la pittura a nuovi e non sperati destini. Quando venne a Firenze (1504-6), e vide che gran cammino l'arte aveva già fatto, sentì subito direttamente gli effetti del nuovo ambiente. Lo studio che allora intraprese di