È sopravvissuto a due guerre mondiali, sette papi, la monarchia, il fascismo, la Prima Repubblica e la Seconda. E a sei processi per mafia e omicidio. Giulio Andreotti è stato un esemplare unico del potere in Italia per longevità, sopravvivenza agli scandali, dimestichezza con gli apparati dello Stato e del Vaticano, consuetudine con le classi dirigenti mondiali del passato. È stato unico perfino nell’aspetto fisico, che ha nutrito generazioni di vignettisti. A cento anni dalla nascita, il 14 gennaio del 1919, ripercorrere la sua vita e la sua epoca significa fare i conti con la distanza siderale tra la sua Italia e quella di oggi. Dopo essere stato incombente per mezzo secolo come uomo di governo e come enigma dell’Italia democristiana, Andreotti non c’è più. E non solo perché è morto, il 6 maggio del 2013. Non esistono più la sua politica, la sua cultura, il suo Vaticano. Rimane solo l’eco lontana e controversa del «processo del secolo», che doveva chiarire le sue responsabilità e che invece si è concluso nel modo più andreottiano: con una verità sfuggente. Nel suo libro, ampiamente rivisto e aggiornato per questa nuova edizione, Massimo Franco racconta e analizza Andreotti e il suo mondo: gli alleati, i nemici, il suo alone intatto di mistero, ma anche la famiglia invisibile per decenni, e sorprendente nella sua stranissima normalità. Attraverso la silhouette curva del «Divo Giulio», aiuta a capire che cosa siamo stati e non siamo più. In un’Italia che cambiava o fingeva di cambiare, Andreotti rimase sempre se stesso: nel bene e nel male. Emblema e garante dello status quo nell’era della guerra fredda, ha rappresentato l’«uomo del Purgatorio» per antonomasia, in una nazione in bilico tra Paradiso occidentale e Inferno comunista. Ha permesso a un’Italia di specchiarsi per mezzo secolo in lui, di sentirsi migliore, o forse solo di autoassolversi. Le ha fornito la bussola: un pessimismo di fondo sulla natura umana, alleviato dall’ironia. MASSIMO FRANCO , inviato e notista politico del «Corriere della Sera», ha lavorato ad «Avvenire», «Il Giorno», «Panorama». È membro dell’International Institute for Strategic Studies (IISS) di Londra. Tra i suoi libri più recenti, Il Vaticano secondo Francesco (Mondadori 2014, edito in Argentina da Aguilar-Penguin Random House), Imperi Paralleli, Vaticano e Stati Uniti, Due secoli di alleanza e conflitto (Mondadori 2005, il Saggiatore 2015, edito negli Usa da Doubleday-Penguin Random House), L’assedio: come l’immigrazione sta cambiando il volto dell’Europa e la nostra vita quotidiana (Mondadori 2016, pubblicato in Spagna da Editorial Popular), e Sono un ottimista globale, Conversazione con Bill Gates (Corriere della Sera, Il Saggiatore 2017). Collabora a Otto e mezzo e a DiMartedì su La7. Progetto grafico: Alice Iuri / the World of DOT https://marapcana.me www.solferinolibri.it https://marapcana.me Saggi MASSIMO FRANCO C’era una volta Andreotti Ritratto di un uomo, di un’epoca e di un Paese www.solferinolibri.it Questa è l’edizione riveduta e ampliata di Andreotti. La vita di un uomo politico, la storia di un’epoca © 2019 RCS MediaGroup S.p.A., Milano Proprietà letteraria riservata ISBN 978-88-282-0152-6 Prima edizione: gennaio 2019 C’era una volta Andreotti A mia moglie Ilaria Che farei se potessi compiere un gesto di assoluta potenza? Sicuramente qualche sciocchezza. GIULIO ANDREOTTI Introduzione «C’era una volta Andreotti» è un titolo che può suonare ambiguo. Somiglia a quello di una favola a lieto fine, o di un racconto con un epilogo drammatico. In realtà, vuole essere solo la biografia di una persona e di un’Italia che ormai appartengono al passato. È il certificato che consegna questo politico alla storia. Il libro lo studia e lo analizza, «dalla culla alla tomba», per archiviarne l’attualità e non per riproporla. Parla del suo mondo e del suo potere come realtà sepolte, delle quali a volte si cercano le tracce, dando tuttavia l’impressione che si faccia in modo artificioso, forzato. In fondo, il saggio ha accompagnato e seguito, nelle sue molte edizioni e nei suoi aggiornamenti, l’evoluzione e la trasformazione di un’Italia e del suo uomo-simbolo. E adesso lo saluta forse definitivamente, con i suoi frammenti di mistero ancora intatti, e con le pillole di una saggezza impregnata di cinismo e di pessimismo, che oggi servono non a descrivere una realtà attuale ma il suo superamento, perfino la sua disintegrazione. Parlare di Giulio Andreotti significa proporre la biografia di un «dinosauro», comparso sulla terra italiana un secolo fa, il 14 gennaio 1919, e scomparso ufficialmente il 6 maggio 2013: anche se politicamente le versioni sono più contrastanti. Per questo va sgombrato subito il campo da un possibile equivoco. A cent’anni dalla sua nascita, farsi suggestionare dalla vulgata secondo la quale siamo ancora immersi in un «secolo andreottiano» significherebbe perpetuare un mito consunto. Mentre un’Italia lacerata e sfiduciata vive una delle sue crisi più traumatiche, Andreotti è davvero un personaggio del passato, nonostante la pervicacia dei suoi accusatori nella magistratura e nella politica, e la difesa strenua che della sua memoria «dannata» fanno i figli e alcuni superstiti della Prima Repubblica. Sembra che entrambi siano costretti, al di là della loro volontà, a trascinare e perpetuare un conflitto sul suo lascito, destinato a non produrre molto di più di polemiche e analisi inevitabilmente parziali; e a sublimare Andreotti come emblema di un’Italia inguaribilmente divisa: proprio lui che, da cattolico romano e da democristiano, aborriva qualunque contrapposizione, almeno visibile. In realtà, il «secolo andreottiano» era finito prima ancora che lui morisse; forse, perfino prima che si celebrassero i processi a suo carico. Politicamente, si era chiuso con la fine della guerra fredda. Quello spartiacque aveva segnato l’archiviazione dello status quo geopolitico di cui Andreotti era stato cultore, custode e garante per quasi mezzo secolo. Quanto è successo dopo, nel mondo e a lui personalmente, somiglia a un tentativo impossibile di incasellare in una gabbia di certezze la guerra fredda e quel simbolo unico, anche fisicamente; di fissarlo in categorie morali e penali, prima che politiche, col risultato di ridurne e banalizzarne la complessità. Operazione velleitaria. A tratti si ha quasi l’impressione che l’Italia, o almeno un’Italia, abbia sentito la necessità di «processare» Andreotti e la Dc per spiegare a se stessa quanto era accaduto nei decenni precedenti; per giustificare la sua impotenza o l’incapacità a capire il nostro popolo; insomma per trovare «una verità» consolatoria, più che per arrivare alla verità. Quanto agli italiani e alle italiane nate negli ultimi trent’anni, probabilmente non sanno bene nemmeno chi sia stato: se non altro per ragioni generazionali. È un Paese cresciuto nell’era di Silvio Berlusconi, impregnato dei suoi valori o, se si vuole disvalori; e approdato, anzi forse portato inconsciamente per mano, a un’idea della politica, delle sue dinamiche, della sua comunicazione, lontana anni luce da quella andreottiana. Sostenere che almeno in alcuni casi si ripetono i riti del Divo Giulio, o di Belzebù, nomignoli che ben riflettono la polarizzazione sul suo personaggio, è un abbaglio. Andreotti non ha eredi, o anche soltanto imitatori, per fortuna o per disgrazia. Mantiene una sua unicità non solo perché già aveva una silhouette atipica ai suoi tempi, ma soprattutto perché è cambiata l’Italia ed è mutato il contesto internazionale. Si è trasformato in profondità perfino il «suo» Vaticano. E quel professionismo della politica che già gli sembrava spudoratamente violato dall’epifania del «dilettante» Silvio Berlusconi nel 1994, è stato sostituito da un dilettantismo trasversale, rivendicato quasi con orgoglio. Evidentemente è la conseguenza di una sequela di errori e di una deriva storica e culturale che travalica i confini italiani e farebbe inorridire Andreotti, sebbene qualche responsabilità, lui e gli ultimi governi della cosiddetta Prima Repubblica, debbano portarla. Il politico di professione che confessava di avercela con Berlusconi per l’invenzione della serie televisiva il Grande Fratello , ora dovrebbe fare i conti col fatto altamente simbolico che il portavoce del presidente del Consiglio nominato all’inizio di giugno del 2018, Giuseppe Conte, sia un ex partecipante a quella trasmissione, Rocco Casalino. Andreotti ha, semmai, improbabili esegeti, che parlano della Dc e della sua epoca, con il manicheismo approssimativo distribuito a piene mani in questi anni di semplificazioni, propaganda, incanaglimento. È come se di lui si potesse dare il giudizio semplicistico costruito dalla Rete, figlio della vulgata popolare e delle certezze autoreferenziali dei siti Internet. Solo quando tutti i protagonisti scompariranno, e gli archivi andreottiani saranno spulciati fino in fondo dagli storici, forse sarà possibile provare a costruire un profilo meno viziato dalla polemica politica. Ma raccontare l’habitat in cui è cresciuto il dinosauro Andreotti aiuta a addentrarsi in un Jurassic Park dove in realtà si ripercorrono le biografie di un’Italia, di una Chiesa cattolica, di una criminalità, di una magistratura, di un popolo di elettori, di un Occidente. E di una democrazia bloccata ma anche stabilizzata dalla guerra fredda, di cui Andreotti è stato testimone privilegiato, sacerdote e perno assoluto per oltre mezzo secolo. Anche se quando si parla di animali preistorici bisogna sempre ricordare lo splendido racconto breve di Italo Calvino, I Dinosauri , contenuto in Le Cosmicomiche . È una metafora del trasformismo quasi genetico, perfino inconscio, del nostro Paese. Racconta la storia di un dinosauro superstite nella terra dei Nuovi che di quei giganteschi rettili conservano e tramandano un ricordo spaventoso. E si conclude con la nascita di un Nuovo, convinto di essere tale, che invece il dinosauro riconosce come una perfetta copia, quasi un clone, di sé. In questa fase, se ci sono cloni andreottiani in giro, rimangono invisibili. Anche se l’aggettivo «andreottiano» viene regalato o affibbiato a questo o a quel neopotente come complimento o, più spesso, come marchio di infamia. D’altronde, l’Italia dopo le elezioni del 4 marzo 2018 è entrata in una fase completamente nuova. La si chiami Terza Repubblica o no, sancisce la fine di un sistema; e il trionfo di un «populismo», termine sempre più insufficiente e ambiguo per definire fenomeni diversi, che in realtà è il prodotto finale dell’Italia riemersa orfana della guerra fredda: l’Italia postandreottiana. Il senatore a vita già si sentiva perso in quella berlusconiana. Forse perché, come intuì il politologo Giovanni Sartori nel 1993, citato da Luciano Fontana nel suo Un Paese senza leader , «dalle rovine del sistema bloccato di Andreotti per ora è uscito soltanto un sistema frantumato che non fa più sistema». Di questa frantumazione, il senatore a vita è stato spettatore e vittima impotente. Amico di pontefici, capi di Stato, suore, mendicanti, bancarottieri, santi, dittatori, attrici, emiri, pittori, calciatori, ladri, collusi con la mafia, è rimasto sempre se stesso: quasi che quella fauna eterogenea gli servisse a confermare le sue idee su un’umanità purgatoriale. Quando una volta gli riferii che un suo amico cardinale mi aveva parlato di lui come di un personaggio pericoloso, rispose, sornione: «Io non ho mai torto un capello a nessuno». E alla mia replica, che magari poteva averlo fatto per suo conto qualcun altro, con un sorriso impercettibile, che lasciava trasparire una smisurata ironia, ribatté: «Guardi che io non conosco solo pregiudicati». Allora, era l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, poteva scherzarci su. La guerra fredda era agli sgoccioli, ma non ancora superata. Lui sedeva a palazzo Chigi, per la sesta volta presidente del Consiglio. E non c’erano ancora indizi evidenti che il suo mondo si stesse rapidamente sgretolando. In quel momento, era un felice sopravvissuto: a due guerre mondiali, sette papi, la monarchia, il fascismo, la Prima Repubblica. E sarebbe uscito più o meno indenne dalla Seconda e da sei processi per mafia e omicidio. Sarebbe diventato un ex potente che si faceva fatica a definire ex, e del quale le giovani generazioni sapevano poco, e quelle vecchie ritenevano di sapere (quasi) tutto, anche se non era vero. Il paradosso è che erano giustificate entrambe, perché per decifrare Andreotti occorreranno forse decenni. Non basterà neppure spulciare uno a uno i tremilacinquecento faldoni del suo archivio, affidato all’Istituto Luigi Sturzo nella primavera del 2007. Si troverà sempre qualcosa, un appunto scritto a mano, un documento, una «memoria», un suo diario, capaci di aggiungere un’altra sfaccettatura alla sua personalità enigmatica; e a confermarlo come guardiano ed emblema del Purgatorio italiano. È un simbolo che lui stesso, probabilmente, solo alla fine dei suoi giorni si è reso conto di incarnare. Prima, nel senso di prima dei processi ai quali è stato sottoposto, Andreotti giocava con la propria fama luciferina standosene in quello che riteneva il paradiso del potere. Quando nel 1989 gli feci sapere che avevo scritto una biografia su di lui, la risposta fu fulminante. «Mi vuole preparare il coccodrillo?» disse con una voce resa ancora più nasale dal sarcasmo. Alludeva agli articoli che i giornali preparano e mettono in archivio in attesa che un personaggio muoia; e che in gergo si chiamano, appunto, «coccodrilli». Aggiunse che non amava le biografie da vivo. Ma capiva che si potesse parlare di lui «perché in fondo» celiò con civetteria «io sono postumo di me stesso». Allora aveva settant’anni e giocava soltanto a fare il sopravvissuto. In quel momento, però, non poteva sapere quanto la sua battuta rischiasse di anticipare e quasi imitare la realtà del suo futuro prossimo. Il dramma dei processi, le speranze effimere di un ritorno al vertice delle istituzioni, i suoi libri, quelli scritti da altri sul processo, i film su di lui, la rapidità con cui gli cambiò il mondo, il «suo» mondo intorno: tutto lo obbligava a essere analizzato come uno strano, enigmatico fossile politico, da maneggiare con cautela. D’altronde, è difficile che gli enigmi muoiano: sono per definizione eterni. Andreotti ha subìto processi per mafia e omicidio e ne è uscito assolto, seppure con una formula a due facce nella sentenza palermitana. Ha visto crollare la Prima Repubblica, la «sua» Repubblica; e nascere ed entrare in crisi la Seconda. Ha assistito impotente all’affermarsi di altri partiti, che hanno seppellito la Dc: anche se si è illuso di risuscitare il centrismo. Nel 2006 è stato perfino candidato per il centrodestra alla presidenza del Senato: una ventata di popolarità e un profumo di potere, questo sì postumo, durati pochi giorni ma capaci di riesumare in modo un po’ patetico la leggenda della sua longevità e della sua onnipotenza. Forse, è soprattutto nel rapporto con una Seconda Repubblica che si rifiutava perfino di definire tale, che Andreotti è apparso postumo di se stesso: non la capiva, e non gli piaceva. Per questo si mostrava recalcitrante ad accettare i nuovi tempi quando affrontava la politica estera, sulla quale pure era un mostro di esperienza e di conoscenza delle cose e dei potenti del mondo. D’altronde, era un politico «programmato» per la guerra fredda; interprete ortodosso della simbiosi del dopoguerra, oggi non più così scontata, fra politica italiana e vaticana anche sul piano internazionale. È stato un europeista e atlantista senza illusioni ma con una lucida percezione dell’interesse nazionale italiano e dei suoi limiti, che ha vissuto in un’Europa senza guerre, e che ha contribuito alla sicurezza del Paese sotto il protettorato degli Stati Uniti. Concetti come unilateralismo, guerra preventiva gli provocavano una reazione istintiva di rigetto. Ma Andreotti, nato nel 1919, ai tempi di Benedetto xv, rimase in primo luogo un papalino. Nel 2013 ha visto eleggere l’ottavo pontefice della sua vita, l’argentino Jorge Mario Bergoglio, Francesco, mantenendo con il Vaticano un rapporto inossidabile: forse l’unico che abbia retto durante gli alti e bassi destabilizzanti negli anni finali della sua esistenza. Non si esagera se si dice che per decenni ha fatto la felicità di qualunque entomologo del potere. Andreotti è stato un esemplare unico in termini di longevità, di sopravvivenza agli scandali, di dimestichezza con gli apparati dello Stato e del Vaticano, di consuetudine con le classi dirigenti mondiali del passato e con i meandri più opachi del potere. È stato unico perfino nell’aspetto fisico, che ha nutrito generazioni di vignettisti e di avversari a caccia di icone da demonizzare. Dopo essere stato incombente per mezzo secolo come uomo politico e soprattutto di governo, e come enigma dell’Italia democristiana, Andreotti «non c’è» più: non solo fisicamente ma politicamente, culturalmente. Non è più nemmeno un uomo-metafora, testimone di miserie e nobiltà della classe dirigente cattolica a partire dal 1945. Il «processo del secolo» che doveva chiarire una volta per tutte i contorni della sua personalità e le sue responsabilità, consegnandole all’inappellabilità delle sentenze, si è concluso nel modo più andreottiano che si potesse immaginare: con una verità in chiaroscuro, sfuggente, quasi contraddittoria. La spola penosa di quel vecchio ex potente tra Roma e Palermo per sentirsi rovesciare addosso anche le accuse più inverosimili, ne segnò il carattere e i comportamenti, rendendolo se possibile ancora più cauto e diffidente; ma forse anche più umile. Rispetto a un’Italia che cambia o finge di cambiare rapidamente, muta convinzioni, gusti, pregi e difetti, Andreotti è stato una certezza: prevedibile, magari anacronistica, bistrattata, ma proprio per questo, tutto sommato, rassicurante. Permetteva al Paese di specchiarsi nel passato; di sentirsi migliore, o semplicemente di assolversi per i suoi peccati nazionali. Sotto questo aspetto è stato una sorta di memoria storica dell’Italia, dopo il secondo conflitto mondiale. E forse, il suo ruolo di nostalgico della Prima Repubblica, della guerra fredda e dei suoi equilibri cristallizzati e dunque protettivi si è conservato a lungo grazie all’incapacità dell’Italia di ritrovare un baricentro, finendo per fotografare le frustrazioni e l’insoddisfazione di un pezzo del Paese. In questo senso, Andreotti ha incarnato l’identità perduta non solo di una classe politica, ma di una porzione dell’Italia moderata; lo smarrimento dei suoi referenti interni, e delle antiche coordinate internazionali. Dopo la fine della Dc, non si sapeva più per chi votasse. Mi confidò che ormai era arrivato «all’indifferentismo» nei confronti dei partiti, e che dunque sceglieva di volta in volta. Per questo votò in un’occasione per An, l’ex Msi, in omaggio al suo avvocato Giulia Bongiorno, che si candidava a destra e che nel 2018 sarebbe approdata al governo in quota Lega; altre, per partitini esistenti quasi nominalmente, ma che ai suoi occhi avevano il pregio di richiamarsi, seppure in modo caricaturale, alla Dc. Non ha mai votato, e lo rivendicava, per il partito di Silvio Berlusconi, col quale aveva condiviso la condizione di imputato ma non l’atteggiamento verso la magistratura che li giudicava. Una volta annunciò che avrebbe messo nell’urna perfino una scheda per Pippo Franco, un attore di cabaret. «È molto intelligente» giustificò quella provocazione. Ma poi negò di averlo votato. Era difficile non cogliere nel suo distacco ostentato verso le scelte elettorali il palpabile disprezzo per quello che doveva apparirgli la Seconda Repubblica: un cocktail di spettacolarità, uso spregiudicato della televisione, e dilettantismo politico; se non altro perché mancava la selezione della classe dirigente attraverso i canali ai quali era abituato Andreotti: Azione cattolica, movimenti giovanili, scuole di partito. Da quando Francesco Cossiga lo nominò senatore a vita, in realtà, visse in un limbo politico nel quale si vantava di trovarsi a suo agio: benché probabilmente non fosse vero. Era l’approdo finale di una parabola che descriveva la traiettoria politica e umana di un italiano dall’esistenza abbastanza unica; ma anche di un’Italia che l’aveva votato, ammirato e detestato per mezzo secolo. In questo senso, era stato l’uomo che aveva riflesso meglio di ogni altro il Purgatorio eterno del nostro Paese. In fondo era stata purgatoriale perfino la sentenza con la quale era stato assolto a Palermo: con la prescrizione, solo la prescrizione del reato di associazione a delinquere fino al 1980, perché allora non esisteva quello di associazione mafiosa; e l’assoluzione piena per il periodo successivo. Per la «sua» Italia, il proscioglimento ai processi di Palermo e di Perugia ha solo confermato quello che pensava: Andreotti era una vittima, il capro espiatorio che le sinistre e una parte della magistratura avevano voluto trovare per processare e condannare la Dc, sovrapponendo responsabilità politiche e penali in modo arbitrario. Gli avversari e la «loro» Italia si mostravano invece frustrati dalle sentenze definitive. Erano pronti a insorgere piccati ogni volta che la supposta «mafiosità» andreottiana veniva ridicolizzata. Ma sotto sotto erano consapevoli che nell’opinione pubblica era passata l’idea che Andreotti avesse «vinto»; che fosse stato assolto perché forse era innocente, o forse perché «aveva dietro il Vaticano». La vulgata popolare era più forte di ogni sentenza. E restituiva una verità più sfumata e problematica di quella che la magistratura aveva preteso di stabilire. Per i nemici rimane la consolazione di un’assoluzione con un’ombra; e dunque la sensazione di avere tenuto in vita e protetto in una sorta di tabernacolo minoritario i sospetti e i pregiudizi sulla sua personalità luciferina. Ma sia chiaro che si tratta di un enigma senza soluzione e di una faida ormai coperta dalla cenere, della quale le nuove generazioni sono all’oscuro. Per loro Andreotti è solo una silhouette contorta in tutti i sensi, dal fisico strano, che appare nelle cineteche della Rai e nei documentari sull’Italia democristiana, per storie di processi e testimonianze sul passato: nulla a che vedere con il presente del potere e dei suoi improbabili rappresentanti. Mi colpì, qualche anno fa, che Giulia Bongiorno, «l’avvocato di Andreotti» per antonomasia, avesse scoperto di essere popolare tra gli adolescenti non per il cosiddetto «processo del secolo», ma perché difendeva tra gli altri il calciatore Francesco Totti, allora ancora capitano della squadra di calcio della Roma. Eppure, nelle altre generazioni l’eco del suo potere rimane, mitizzato in modo perfino esagerato. Francesca Cima, una delle produttrici del film su Andreotti, Il Divo , nel giugno del 2007 mi volle incontrare per chiedere se poteva mettere nei titoli di coda un ringraziamento personale, perché la mia biografia del senatore era stata, diceva, la maggiore fonte alla quale gli autori avevano attinto. Ho risposto che prima avrei dovuto vedere la sceneggiatura. A quel punto, la produttrice del fim è diventata evasiva, ha detto che «non poteva darla in giro»: come se il ringraziamento, e il mio placet a farlo inserire nella pellicola, dovessero essere a scatola chiusa. Naturalmente, a quel punto ho detto di no. Credo che in realtà fosse un accorgimento che i produttori avevano sperato di trovare soprattutto per tutelarsi di fronte alla possibile reazione di quel dinosauro democristiano dalle mille vite e dal potere, a loro avviso, tuttora terribilmente imprevedibile. Mi ha altrettanto sorpreso che il regista del film, Paolo Sorrentino, dopo avermi invitato a cena abbia fatto come prima domanda: «Ma secondo te Andreotti è mafioso?». La cosa singolare era che entrambi, Sorrentino e Cima, si dicevano convinti che Andreotti la loro sceneggiatura top secret l’avesse già letta «attraverso i suoi canali: figurati se qualcuno dei suoi amici nel cinema non gliel’ha già fatta vedere». Si crogiolavano nel mito e nell’enigma, spaventati e insieme attirati irresistibilmente da quella metafora vivente di un’Italia senza verità certe: al punto che perfino l’incontro che Andreotti ha avuto con Sorrentino è diventato qualcosa di probabile, mai vidimato come avvenuto; non, almeno, da parte del senatore a vita. Quell’atteggiamento mi è sembrato la conferma di riflessi più forti di qualunque sentenza della magistratura: perché si sono sedimentati e cristallizzati nella memoria collettiva del Paese. Sorrentino e Cima mi hanno dato l’idea di due tipici italiani di una sinistra ideologica, confusa di fronte a un personaggio troppo sfaccettato e carico di storia, per suggerire non solo risposte, ma a volte anche domande pertinenti. Eppure, credo che Andreotti abbia beneficiato di questi pregiudizi: almeno fino a una certa data. E comunque, sono stati la vera garanzia della sopravvivenza del suo mito. Questo libro è un tentativo di spiegare perché non esiste più, perché è stato sbiadito da cambiamenti epocali e tuttora in incubazione. E di farlo conoscere a chi, per motivi generazionali, vorrebbe capire meglio che cosa siamo stati e non siamo più. Questo è un Paese che dice di voler risolvere gli enigmi. In realtà, se li tiene, se li coccola e ci sguazza dentro, come se fossero un rassicurante Purgatorio nel quale scavarsi una nicchia: forse perché la convinzione inconfessabile è che il Purgatorio italiano non spalanca le porte del Paradiso, ma dell’Inferno. Roma, dicembre 2018 1 Giulio, 10 in condotta Il nipote del cappellaio «Chi dalla porta di Segni sale alla piazza, percorrendo via San Vitaliano, già via Cavour, ma che per i segnini veraci è sempre la “Via Ritta”, a oltre metà del percorso si trova di fronte una nicchia scavata nel muro e riquadrata con elementi architettonici di pietra locale a formare una elegante edicola. A quel punto si apre via della Pretura e il caseggiato che dà inizio alla fiancata destra della strada è più sporgente di quello di sinistra. Su quella sporgenza a metri 2,26 dal piano stradale, si apre una nicchia. Fu fatta costruire alla fine dell’800 dal sig. Francesco Andreotti, che nella bottega a lato gestiva un negozio di cappelli. Uomo molto religioso era Francesco, come tramandano i vecchi. Era nato a Segni il 28 luglio 1857 da Andrea e Vittoria De Santis. Il 18 aprile 1887, all’età di trent’anni, sposò Clotilde Colabucci da cui il 23 aprile dell’anno successivo nacque Alfonso Filippo Mario. Questi il 20 ottobre 1912 sposò a Roma Rosa Falasca di Augusto. Alfonso e Rosa ebbero tre figli: Francesco, Elena, morta giovanissima nel 1934, e Giulio. I Segnini avranno già capito che quel Giulio è il celebre concittadino (anche se nato a Roma), oggi ministro degli Esteri...» La storia di Giulio, il nipote del cappellaio di Segni, comincia con questa descrizione del suo albero genealogico venata di orgoglio ciociaro. La racconta il Cuore della Diocesi , supplemen to del bollettino diocesano di Velletri e Segni, dell’11 novembre 1988. E il biografo è un sacerdote, monsignor Bruno Navarra, uno dei tanti che hanno accompagnato e applaudito la vita di questo ragazzino precoce, con le spalle da sempre un po’ curve, le orecchie a sventola, un carattere che appariva innatamente gelido e una saggezza «da vecchio» altrettanto congenita. Ancora se lo ricordano, nel paesotto papalino che produceva buoni preti e ottime salsicce. Lo rammentano già orfano, perché il padre, maestro elementare, era morto dopo «un’infermità dipendente dal servizio di guerra», il 14 dicembre 1921, che lui non aveva ancora tre anni. La tomba è lì, nel cimitero del paese, accanto a quella della sorella di Giulio, Elena, uccisa da una polmonite fulminante a diciott’anni. I segnini cercano di rintracciare la predestinazione al potere. Collegano episodi sedimentati nella memoria alle gesta del celebre concittadino. Frugano per trovare un legame che spieghi perché il nipote del cappellaio, nato a Roma e di casa a Segni nei mesi estivi, sia diventato «Andreotti». Ma affiorano soltanto immagini di un’infanzia modesta, all’ombra di una madre vedova che doveva tirar su tre figli piccoli. E a volte affidava il minore all’esattore del dazio, perché gli desse un’occhiata mentre lei andava a fare qualche commissione. Era un bambino vivace e insieme molto controllato. Per un po’, prima che la madre decidesse di tornare a Roma, frequentò la scuola materna di Segni tenuta dalle suore di Santa Giovanna Antida. Mangiava lì. Non erano certo tempi di abbondanza, non c’era quello che anni dopo si sarebbe chiamato benessere. Andreotti diceva un po’ disgustato a mamma Rosa: «Mi danno da mangiare la terra», e in effetti il sangue bovino bollito che a volte veniva servito dalle suore a tocchi, solidificato, non doveva essere molto diverso da una zolla di terra, per quanto nutriente. Non c’era da scialare, e le prospettive di un buon lavoro erano roba per pochi. Contro la miseria e la sovrappopolazione, molte delle famiglie della Valle del Sacco mettevano i figli in seminario: era uno dei modi per sfuggire alla disoccupazione, come diventare carabinieri nel Sud. Mamma Rosa insegnava a Giulio la religiosità. Gli spiegava che il venerdì possibilmente bisognava mangiare di magro, che la Chiesa e i preti erano punti di riferimento saldi, importanti; che il papa era un secondo padre e lo Stato un’entità più distante, e vagamente ostile. Di affetto ce n’era molto, ma compresso, mutilato di qualsiasi manifestazione esteriore. Era come sovrastato dal rispetto e dall’introversione. Una volta, molti anni dopo, chiesero ad Andreotti se era vero che non avesse mai scambiato un bacio con la madre. Rispose di sì. «D’altra parte» aggiunse con un sarcasmo che rivelava qualcosa di doloroso «Giuda sembra che baciasse molto, e non era